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Padre Antonio Ronchi. Un pioniere guanelliano nella Patagonia cilena di Ezio Meroni
La madre di padre Antonio Ronchi, Agnese Berra, veniva da Nova Milanese (Mb), il padre, Pierino Ronchi, era di Cinisello e di mestiere faceva il mediatore, cioè combinava affari di ogni tipo, dal bestiame ai terreni, dai cereali alle macchine agricole, dagli ortaggi alla frutta. Era il suo lavoro, lo aveva appreso da suo padre e lo avrebbe insegnato al suo primogenito maschio, perché da generazioni nel clan dei Ronchi uno faceva il malus (mediatore) e gli altri il paisàn (contadino). Agnese Berra e Pierino Ronchi si sposarono il 5 ottobre del 1927.
Tutto il clan dei Ronchi abitava alla curt di Cistéj in piazza Gramsci ed era capeggiato da Antonio, il regiù (capofamiglia) che governava mogli, figli, nuore e nipoti; decideva cosa e quanto coltivare, assegnava le mansioni da svolgere nei campi e nelle stalle, riscuoteva i proventi della vendita dei prodotti agricoli e, insieme alla moglie, gestiva le finanze distribuendo settimanalmente le risorse a ciascun figlio. Pierino Ronchi aveva pensato di vendere direttamente i loro prodotti anziché fare l’interesse dei grossisti e, d’accordo con il padre, aprì un negozio di frutta e verdura in via Garibaldi, che venne gestito dalla moglie Agnese.
Il 12 agosto del 1928 venne alla luce Luigia, la primogenita dei loro dodici figli.
Nel 1929 Pierino Ronchi ricevette un’offerta da Ambrogio Casati, allora presidente della Cooperativa L’Agricola di Balsamo: due locali in affitto a modico prezzo, un campo da coltivare e la possibilità di integrare i guadagni con i proventi dello spaccio. Pierino accettò d’accordo con la moglie che a Balsamo avrebbe venduto sementi, attrezzi agricoli e vino ai soci della Cooperativa, mentre lui avrebbe alternato il lavoro di mediatore con quello di contadino. L’11 novembre del 1929, festa di San Martino, si trasferirono a Balsamo nella corte del Guzzi, dove c’era lo spaccio della Cooperativa.
Il 3 febbraio del 1930 nacque il secondo figlio, Antonio, che fu battezzato il 6 febbraio nella parrocchiale di San Martino a Balsamo con il nome del nonno.
Per incrementare i guadagni Pierino Ronchi negli anni Trenta cominciò a vendere la paglia ad alcune scuderie dell’Ippodromo di San Siro; la comperava dai soci della Cooperativa L’Agricola e la consegnava personalmente. Visti i risultati incoraggianti, ampliò l’attività tanto da venire soprannominato Pajàtt (commerciante di paglia). Un appellativo che, secondo la tradizione, fu esteso a tutti i componenti della famiglia che nel frattempo era aumentata: al principio del 1932 era nato Carlo e un anno dopo Vittoria.
Intanto il regiù Antonio aveva deciso di procedere con la divisione dell’eredità; Pierino con la sua parte acquistò a un prezzo conveniente un terreno in via Vittorio Veneto, al confine tra Cinisello Balsamo e Bresso. Non era un podere di gran pregio perché era lambito dall’autostrada Milano-Bergamo, confinava con l’aeroporto militare ed era attraversato dalla fogna che portava le acque di scolo alla foppa. Ma per lui si trattò di un vero affare; era terra buona, con lo spazio per costruirvi la fattoria e la stalla e c’era persino una piccola cava che avrebbe fruttato qualche soldo con la vendita della ghiaia.
Mentre Agnese era in attesa del quinto figlio, un giorno la piccola Vittoria si sentì improvvisamente male. La diagnosi del medico non lasciava scampo: meningite. La bambina si spense in pochi giorni, a soli diciotto mesi.
Nell’ottobre del 1936 Antonio Ronchi iniziò a frequentare la prima elementare alla scuola Filippo Corridoni di Balsamo, dimostrandosi un bambino buono e disciplinato ma un mediocre studente, tanto che nei primi quattro anni venne bocciato due volte. Ma non era tutta colpa sua; il padre richiedeva spesso il suo aiuto in campagna lasciandogli poco tempo per lo studio. Decisamente migliore fu la frequenza al catechismo in preparazione alla prima comunione e alla cresima. Dopo il trasferimento in via Vittorio Veneto la sua parrocchia era tornata ad essere quella di Sant’Ambrogio a Cinisello, dove Antonio seguì le lezioni di don Virgilio Pedretti. Iniziò a frequentare anche il vecchio oratorio di via Cavour scoprendo due grandi passioni: il calcio e il cinema.
Con la nascita di Vittorio nel 1935 e di Felice l’anno seguente, in casa c’erano due nuove bocche da sfamare.
Nel 1940, in terza elementare, Antonio venne rimandato a settembre in cinque materie ma si presentò agli esami di riparazione senza essersi preparato; venne quindi bocciato con altrettante insufficienze. A dieci anni doveva ripetere la terza elementare; mamma Agnese era molto dispiaciuta ma non ne fece un dramma e papà Pierino accolse la seconda bocciatura con un’alzata di spalle. Lui conosceva Antonio molto meglio delle maestre: era un ragazzo sveglio, intelligente, orgoglioso e caparbio.
Intanto la famiglia era ancora aumentata con la nascita di Anna nel 1938 e di Giuseppe nel 1939, che morirà pochi mesi dopo di polmonite.
Antonio fu inserito in una classe di cinquantuno alunni, parecchi dei quali molto più grandi di lui, affidati alla maestra Raffaella Srebenic: un’insegnante giovane, entusiasta, preparata e profondamente credente. Dopo mamma Agnese e don Pedretti, la maestra fu la terza persona che più influì sulla sua formazione religiosa. Anche se ripetente, Antonio Ronchi fu ancora rimandato a settembre. Questa volta però superò gli esami e ottenne la promozione. L’anno successivo frequentò regolarmente solo il primo trimestre, accumulando molte assenze in quelli successivi. Comunque la maestra comprese la situazione e gli concesse un’ulteriore possibilità rimandandolo a settembre in sette materie. Recuperare sembrava un’impresa proibitiva, considerando che doveva occuparsi della mietitura del frumento e della cura del granoturco prima del raccolto di settembre. E inoltre c’erano le bestie da accudire e il padre da seguire nella sua attività. Agli esami di riparazione Antonio riuscì a strappare la sufficienza in tutte le materie ed essere ammesso alla quinta classe. Nel giugno del 1943 finì la quinta elementare e poté dedicarsi a tempo pieno al lavoro nei campi.
La famiglia era cresciuta e in tempo di guerra si doveva tirare la cinghia; i vestiti passavano dal più grande al più piccolo e le scarpe erano un lusso riservato solo alla domenica e alle feste comandate. Tuttavia nessuno aveva patito la fame e papà Pierino ne andava orgoglioso.
La fattoria dei Ronchi si trovava al confine con l’aeroporto militare, obiettivo di incursioni aeree nemiche. Per l’incubo dei bombardamenti andavano a letto vestiti, pronti a scappare non appena suonava la sirena dell’allarme. Mamma Agnese teneva in braccio Giuseppe, il figlio più piccolo nato nel 1941, Pierino stringeva la borsa con i soldi e i pochi oggetti preziosi e Luigia e Antonio conducevano i fratelli più piccoli attraverso i sentieri per portarli il più lontano possibile dalla pista.
Pochi giorni dopo la fine della guerra in paese si sparse la notizia del passaggio di una colonna americana sull’autostrada Milano-Bergamo. I bene informati garantivano che avrebbero regalato cioccolato in abbondanza. Antonio, con il permesso della madre, si recò sul posto insieme ai fratelli Carlo, Felice e Vittorio. L’autostrada era deserta e i ragazzi decisero di aspettare. Carlo trovò un pezzo di ferro ben modellato che cominciarono a lanciarsi provando poi a smontarlo. Un boato improvviso squarciò il silenzio della campagna: l’ordigno era esploso tra le mani di Carlo che ora giaceva al suolo con il volto coperto di sangue. Sconvolto, Antonio si avviò verso casa sorreggendo il fratello ferito, lì la sorella Luigia, senza perdere tempo, lo mise sulla canna della bicicletta e partì alla volta dell’ospedale di Desio dove il dottore, dopo aver medicato le ferite, disse loro di andare in chiesa ad accendere un cero alla Madonna perché se l’ordigno fosse stato efficiente avrebbe provocato una strage.
Crescendo, Antonio dimostrava sempre di più una sensibilità e una finezza d’animo nei confronti dei più sofferenti. Serio, ubbidiente e gran lavoratore, stava però vivendo un momento delicato della sua formazione. Si era messo a leggere molto e non sembrava interessato alle ragazze. Aveva preso ad andare in chiesa anche nei giorni feriali e non faceva mai storie se la mancia era scarsa. La signora Agnese ne parlò con don Pedretti chiedendogli di aiutarla a capire suo figlio. Il sacerdote parlò con il ragazzo che colse volentieri l’opportunità per confidargli la sua vocazione, l’intenzione di entrare in seminario e i suoi timori per la prevedibile opposizione del padre. Mamma Agnese, venuta a conoscenza della vocazione del figlio, si commosse e ringraziò il Signore.
Intanto la famiglia cresceva e il padre aveva in mente di prendere in affitto un altro terreno e di comprare altri animali. Aveva anche stipulato un contratto con il Comune per innaffiare le strade nei mesi estivi; con quel servizio voleva anche responsabilizzare Antonio che per due estati, una volta al giorno, attaccava il carro agricolo al possente cavallo da tiro e, dopo averlo riempito d’acqua della cava, usciva a bagnare le strade.
L’affetto e la riconoscenza di Pierino verso il figlio Antonio crebbero nella primavera del 1946 a seguito di un incidente che avrebbe potuto finire in tragedia. Il piccolo Luigi cadde nella melma di un canale e fu salvato dal fratello Antonio.
Il padre spirituale di Antonio, don Pedretti, e il parroco don Massimo Pecora, avendo verificato la solidità della sua fede, conclusero che aveva tutti i requisiti umani, morali e religiosi per entrare in seminario e pensarono che il suo carisma avrebbe potuto esprimersi al meglio tra i Servi della Carità di don Luigi Guanella. Perciò decisero con mamma Agnese che era arrivato il momento di informare il padre. Per poco a Pierino Ronchi non venne un colpo. La sua ira esplose in un profluvio di minacce, insulti e accuse; rimproverò lei e Antonio di aver tramato alle sue spalle. Sfogò la sua rabbia contro i preti fannulloni e incapaci che erano venuti a rubargli il primogenito. Niente da fare, lui non avrebbe firmato nessun documento. Alla fine la moglie riuscì a farlo ragionare, spiegandogli che era stata una scelta volontaria del ragazzo.
Dopo aver parlato con il figlio e dopo le pressioni della moglie, alla fine accettò anche di accompagnarlo alla Casa San Gerolamo di Fara Novarese, il seminario minore della Congregazione dei Servi della Carità. La mattina del 16 settembre 1947 lo zio Paolo Meroni e sua moglie, il padre e la madre con in braccio la piccola Rosangela, l’ultima nata, lo accompagnarono verso il cammino di consacrazione al Signore. Al momento del commiato papà Pierino si voltò di spalle e si allontanò per non farsi vedere con le lacrime agli occhi.
Intanto don Massimo Pecora aveva inviato tutti gli incartamenti su Antonio Ronchi con la nota: “Il sottoscritto attesta che Ronchi Antonio ha dato segni di vocazione religiosa, appartiene a buona e onorata famiglia [...]ed è di lodevole condotta sotto ogni aspetto”.
A diciassette anni e mezzo venne inserito in prima media, insieme a ragazzi più giovani anche di cinque anni, ma non fece drammi e si buttò sui libri con passione ed entusiasmo. Le giornate erano scandite dalle lezioni, dalle preghiere e da pochi momenti di svago. L’impostazione pedagogica non prevedeva vacanze durante l’anno o rientri in famiglia, così nel luglio del 1948 non potè presenziare alla benedizione della cappellina dedicata alla Madonna Addolorata a Cinisello Balsamo.
Nel 1949 fu trasferito nella nuova struttura di Anzano del Parco, nelle colline comasche, dove affrontò la terza media. Visto il profitto soddisfacente venne inserito tra i fuochisti, per i quali era prevista la possibilità di accelerare il corso degli studi, decisione che lo riempì di gioia insieme alla notizia della nascita dell’ultima sorellina Maria.
Nel 1950 tornò a casa per una breve vacanza e al rientro affrontò in un solo anno il programma previsto per le due classi del ginnasio. Fu promosso e potè inoltrare la domanda di ammissione al noviziato. Il rettore don Fontana accolse la sua richiesta con vivo apprezzamento. Dopo un ritiro spirituale, il 12 settembre del 1951 il chierico Antonio Ronchi entrò nel seminario di Barza d’Ispra nelle colline del Varesotto. Il Noviziato, che durava due anni, era dedicato alla preghiera, alla meditazione e al lavoro, con la ripresa degli studi nel secondo anno. Suoi Maestri furono don Olimpio Giampedraglia e don Armando Budino.
I tre anni di liceo furono determinanti per consolidare la sua preparazione culturale e per plasmare il suo temperamento. Don Giovanni Cantoni, suo insegnante di filosofia lo ricorda con commozione: “Era un vulcano, forte fisicamente e moralmente. Metteva in ogni cosa un impeto commovente”. Il suo rapporto con i compagni era caratterizzato dalla schiettezza e dalla generosità. Fu in questo periodo che si manifestarono i segni premonitori della sua vocazione missionaria.
Tornato a casa per una breve vacanza, provò ad affrontare l’argomento con il padre che vedeva sempre più triste e rassegnato per l’agonia dell’agricoltura; i paisàn vendevano i terreni su cui sorgevano alti palazzi per ospitare gli operai provenienti da tutte le regioni d’Italia. Anche papà Pierino si era dovuto adattare aprendo una fiaschetteria e uno spaccio per la vendita di legna, carbone e bombole del gas, dove lavoravano sua moglie e le figlie più grandi. Nemmeno il trattore preso in affitto per i lavori più pesanti aveva migliorato i ricavi della campagna. Quando papà Pierino seppe dei progetti del figlio tuonò minaccioso: “Te voret andà fin là per fàt masà? Putòst te màsi mi!” (Vuoi andare fin là per farti ammazzare? Piuttosto ti ammazzo io!). Ci volle tutta la paziente diplomazia di sua moglie per convincerlo.
Il 4 settembre del 1953, dopo essere stato promosso in seconda liceo, nel rispetto delle Costituzioni Guanelliane, si apprestò a dettare il proprio testamento disponendo che i suoi beni sarebbero andati in favore della Congregazione dei Servi della Carità. La settimana successiva fece la prima Professione di Fede, rinnovandola l’anno seguente dopo aver superato la seconda liceo.
Nell’estate del 1955 superò con qualche difficoltà gli esami di maturità e tornò a casa per una brevissima visita. A settembre dello stesso anno fu destinato alla sede di Vellai di Feltre dove avrebbe iniziato gli studi teologici.
Vi giunse in compagnia di Ezio Cantù a cui era legato da sincera amicizia già dai tempi di Barza d’Ispra.
Il 6 ottobre del 1955 ricevette la notizia che il padre era morto. Tempo prima era stato ricoverato a seguito di una caduta dal motorino e non si era più ripreso; se n’era andato deluso da un mondo in cui non si riconosceva più. Antonio tornò a casa per il funerale. Si preoccupò per la madre che era rimasta sola con alcuni dei figli ancora piccoli, ma don Virginio lo tranquillizzò dicendogli che avrebbero provveduto a loro mandandoli in collegio per finire gli studi. La sera mamma Agnese radunò i figli e disse che soldi ce n’erano pochi ma si poteva tirare avanti: “Apriremo un bar e lo chiameremo Bar Pierino in onore di vostro padre; Anna mi darà una mano e con gli stipendi di Carlo, Vittorio e Felice faremo quadrare i conti”.
Tornato in seminario, Antonio si dedicò con maggiore puntiglio agli studi trovando un equilibrio tra l’impulsività del suo carattere e l’esigenza della vita comunitaria. Superò gli esami finali del primo anno con la media dell’otto. Oltre agli studi teologici si applicò anche in lavori di falegnameria e meccanica che gli sarebbero stati utili successivamente nella sua missione in Cile. Nel contempo organizzò attività con i ragazzi orfani ospitati nell’Istituto.
Il 18 e il 19 marzo del 1956 ricevette la tonsura e i primi due Ordini Minori (Ostiariato e Lettorato); il 20 ottobre dell’anno seguente i secondi Ordini Minori (Esorcistato e Accolitaro) e il 10 agosto del 1958, al termine del terzo anno, inoltrò domanda di ammissione alla Professione Perpetua. In preparazione a questa tappa fondamentale, si ritirò a Barza d’Ispra per un corso di esercizi spirituali; il 12 settembre del 1958 si consacrò per sempre al Signore.
Prima di ritornare a Vellai per l’ultimo anno di teologia trascorse qualche giorno a casa; incontrò don Pecora e visitò il nuovo oratorio in via Fiume.
Terminò gli studi con ottimi risultati che lo portarono alla consacrazione sacerdotale: l’11 gennaio 1959 ricevette il Suddiaconato e il 14 marzo il Diaconato. Pochi giorni dopo venne accettata la sua richiesta di ammissione al Presbiterato. Il 23 maggio 1959 lo raggiunsero a Vellai la madre, i fratelli e altri parenti per la sua ordinazione sacerdotale.
A giugno di quell’anno tornò a Cinisello Balsamo; la mattina di domenica 29 giugno una lunga processione andò a prendere don Antonio alla fattoria dei Ronchi e lo accompagnò fino alla parrocchia di Sant’Ambrogio.
Don Antonio era stato assegnato all’Istituto San Gaetano di Milano quando ricevette la terribile notizia che alla madre era stato diagnosticato un tumore allo stomaco. Dopo l’intervento chirurgico, che non lasciava speranze, trascorse accanto alla madre ogni momento libero. Il 6 febbraio 1960 arrivò in tempo per amministrarle l’estrema unzione e vederla spirare circondata da tutti i suoi figli. Con lei finiva un’epoca: quella della fattoria, dell’agricoltura, dei cavalli, della guerra, dei grandi sacrifici per arrivare alla fine del mese, del bucato lavato a mano nei mastelli e messo ad asciugare sull’aia, del latte appena munto venduto ai clienti nella calderìna (piccolo recipiente di rame), delle serate di settembre seduti attorno alla catasta dei tirsi da spannocchiare.
I superiori proposero a don Antonio di partire missionario in Cile; lui accettò con entusiasmo, confortato dalle parole della sorella Luigia: “Segui la tua strada; l’importante è stare uniti e volerci bene”. Raccolse pochi indumenti personali, la tonaca e il calice donatogli da sua mamma, fece un’ultima visita alla fattoria di Cinisello e chiese a tutti i suoi familiari un impegno solenne: ogni sera alle ore 23 italiane, le 18 in Cile, ciascuno nelle proprie case si sarebbe raccolto in preghiera in un gesto di fede comunitaria che annullava le distanze e rinsaldava l’amore fraterno.
Il 22 agosto 1960, poco prima delle ore 11, partì da piazza Gramsci un pulmann speciale, messo gratuitamente a disposizione dai Fratelli Palladini, con parenti e amici che lo accompagnarono all’imbarco sul transatlantico Giulio Cesare, insieme al suo amico padre Ezio Cantù. Durante il viaggio padre Moreschi li informò sulla situazione che avrebbero trovato all’arrivo: un paese pieno di contraddizioni, con un evidente divario tra il lusso dei quartieri residenziali e l’estrema povertà delle poblaciones, povertà aggravata dalle conseguenze del terremoto avvenuto tre mesi prima, che aveva provocato un terrificante tsunami con oltre duemila morti, tremila feriti e due milioni di senza tetto.
Giunti a Santiago, le loro strade si divisero: padre Cantù rimase nella capitale, mentre padre Ronchi fu inviato a Rancagua, la capitale della VI Regione di O’Higgins, una zona collinosa coltivata a vigneti con un clima mite mediterraneo, dove le miniere di rame costituivano il secondo pilastro di un’economia in crescita che attirava mano d’opera favorendo uno sviluppo disordinato di baraccopoli. Padre Ronchi cominciò la sua esperienza missionaria insegnando ai ragazzi dell’Hogar Sagrado Corazòn, andando nelle scuole pubbliche per l’ora di religione e lavorando i campi per la Scuola Agraria. Tra le baracche si aggiravano ragazzi analfabeti abbandonati a se stessi, ovunque si incontrava povertà, sporcizia e malattie, spesso alcool e violenza, ma anche la fede in Dio. Padre Ronchi conversava con i ragazzi, si metteva a disposizione delle famiglie trascurando la vita della sua comunità religiosa. Per la gente diventò subito el cura patiperro (una persona sempre in movimento).
Ai primi del 1961 arrivò la richiesta di sostenere la Missione di Puerto Cisnes (cittadina fondata da Eugenia Pirzo Biroli, dama guanelliana, insieme a padre Calvi), una terra incontaminata e sperduta nella regione di Aysén (110 mila chilometri quadrati tra le Ande e il Pacifico, abitata dai discendenti dei Mapuche) in Patagonia. Un clima freddo e umido con paesaggi di rara bellezza e villaggi sperduti di allevatori, boscaioli e minatori distanti tra loro giornate di cammino; un litorale con profonde insenature punteggiato da misere capanne di pescatori.
I Servi della Carità avevano fondato la Casa San Luigi: un internato per ragazzi delle elementari e una scuola agraria per insegnare ai giovani a coltivare il terreno e ad allevare il bestiame. Padre Ronchi vi arrivò nella primavera del 1961 e incontrò subito molti ostacoli. Scriveva a un cugino: “Non c’è acqua, non c’è luce, non ci sono strade, c’è gente amorfa, pretenziosa, scettica, pettegola, che considera il sacerdote come un funzionario pagato dalle potenze straniere per fare quattrini”. Ci vollero diversi mesi, molta pazienza e tanta umiltà per superare i momenti difficili. Comprese che tutto quello che aveva imparato non gli serviva a niente e che se voleva creare un rapporto con loro doveva apprendere la loro cultura. Sedici anni dopo a un giornalista darà un giudizio ben diverso: “Sono le persone più intelligenti del mondo, senza ipocrisie, senza nascondere niente sotto il poncho. Cercano di rendersi utili agli altri senza farlo pesare”. Capì che non si poteva parlare di Dio se non attraverso opere sociali e culturali, elevando il loro livello di vita. Mise a punto la strategia dell’autodesarrollo (auto sviluppo). Distribuiva aiuti solo alle famiglie e ai gruppi che si attivavano per realizzare microprogetti a vantaggio proprio e della collettività. La parola carità era bandita dal suo vocabolario, con le persone aveva un rapporto aperto, diretto, ma non ingenuo, né tantomeno buonista.
Tante furono le attività che organizzò, riuscì persino a procurarsi energia elettrica da potenti batterie di camion per proporre nel mese di Maria filmine, comunicando con un altoparlante; cose mai viste da quella popolazione.
Non si limitò a visitare boscaioli, pescatori, contadini, ma condivise le loro attività, celebrò la messa nelle loro case, soffermandosi a mangiare con loro seduto intorno al fuoco. Per l’apostolato nelle zone lontane utilizzava il cavallo e la barca impiegando talvolta parecchi giorni di viaggio. La gente cominciò a chiamare questo dono della provvidenza “el cura rasca” (prete povero).
Si fece inviare dai suoi familiari una radio ricetrasmittente da utilizzare per le emergenze sanitarie, mantenere i collegamenti con la civiltà, ma anche in un futuro prossimo da utilizzare come mezzo di diffusione della Parola di Dio, promuovendo informazione e tenendo compagnia alle famiglie, cercando così di rompere l’isolamento dovuto alla distanza tra i villaggi. La radio fu in seguito pagata dalla Congregazione che inizialmente non aveva accolto la richiesta (nel 1968 con i macchinari messigli a disposizione dall’U.S. Army diede vita alla Emisora San Luis per la diffusione dei programmi religiosi).
In pochi anni l’opera di don Antonio contribuì alla costruzione di case, scuole, cappelle, orti, prati, allevamenti dove prima c’erano solo terreni incolti. Fu realizzata una piccola centrale elettrica, una cooperativa agricola e una pescheria, oltre a un piccolo ospedale.
Per far fronte a tutte le incombenze aveva trascurato il lavoro educativo e la catechesi; spesso per velocizzare i progetti avvertiva i superiori senza attendere il loro formale consenso. Nel 1967 questo atteggiamento suscitò i primi contrasti e i primi richiami, ai quali rispose con schiettezza ma anche con grande sofferenza. Per far decantare la situazione gli proposero di rientrare in Italia per una visita alla famiglia che non vedeva da otto anni.
Arrivò nella primavera del 1968. Faticò a riconoscere la sua città dove una selva di costruzioni aveva cancellato quasi completamente i campi; anche la fattoria dei Ronchi era assediata dal cemento e dalle fabbriche. La famiglia si era allargata con l’arrivo di un nugolo di nipotini.
Dopo aver celebrato il matrimonio della sorella Rosangela, si buttò anima e corpo in una raccolta di fondi per la comunità di Aysén, dove restava da completare la costruzione di una falegnameria e di un laboratorio di maglieria; gli serviva un gruppo elettrogeno, una pala meccanica e, per l’ultimo progetto, il motore di un battello per trasportare le merci. Alla fine dell’estate, ottenuti gli aiuti, tornò in Cile.
Dal 1968 cominciò anche il proficuo rapporto con il Gruppo Missionario della sua parrocchia, pur essendo già proiettato in una successiva fase del suo progetto: l’addestramento delle persone. Doveva formarle insegnando loro a usare gli strumenti della falegnameria e delle macchine tessili; cinque ore alla mattina e tre al pomeriggio, inclusa l’alfabetizzazione. Nel contempo chiese aiuto al Gruppo Missionario per procurare cibo alle famiglie.
Tra i membri della sua Congregazione emersero nuove perplessità sul suo operato, al punto che gli proposero una nuova destinazione: la parrocchia Madre della Divina Provvidenza, nella poblaciòn Centenario, una delle più popolose e povere di Rancagua. Ci andò senza protestare, pur avendo nel cuore l’amarezza di lasciare le comunità patagoniche dove aveva avviato numerosi progetti che adesso rischiavano di bloccarsi.
Dopo un primo periodo di ambientamento iniziò a lavorare a una Missione per la creazione di Comunità Cristiane di Base. Entrò in tutte le case, i tuguri e le baracche; parlò con operai, minatori, contadini, studenti, sindacalisti, disoccupati, madri e giovani; distribuì questionari, condusse trasmissioni radiofoniche, diffuse volantini, organizzò assemblee e riunioni. Voleva identificarsi con il problema del sottosviluppo per partire da esso e arrivare al messaggio liberatore di Cristo. Voleva costruire centri comunitari al servizio della gente e un albergo per gli accattoni.
Nel frattempo il Cile stava vivendo una fase drammatica caratterizzata da un aspro confronto politico in vista delle elezioni che avrebbero portato alla presidenza Salvador Allende. L’attività di padre Ronchi fu guardata con diffidenza sia dalla sinistra, per la sua mancata presa di posizione rispetto alla Teologia della Liberazione, che dai conservatori, perplessi per i suoi metodi e per l’importanza che dava agli interventi di carattere sociale, tanto che cominciarono a considerarlo un prete comunista. Anni dopo lui stesso ricorderà in un reportage che davanti ai problemi sociali della gente visse un momento di crisi e pensò che la soluzione violenta fosse lo strumento migliore per un cambiamento, ma poi scelse la strada dell’amore.
Convinto che la testimonianza diretta del Vangelo avrebbe trovato un efficare strumento complementare nei mass-media, incrementò la sua attività come locutor (annunciatore) di trasmissioni religiose alla radio.
Unica parentesi riservata alla sua formazione spirituale e culturale erano i tre giorni al mese in cui si ritirava nel monastero trappista de’ La Dehesa.
Dai suoi familiari e dalla parrocchia gli giungevano ogni tanto materiali o assegni; sollecitò i fratelli per avere quattro macchine per tessere e tre per cucire.
Padre Antonio subì in quel periodo un duro colpo in quanto il vescovo monsignor Duràn chiese che gli fossero mostrati i permessi scritti delle costruzioni da lui avviate. Non potendo produrre alcunché, gli fu ordinato di sospendere i lavori che, essendo però in stato di avanzamento e avendo già coinvolto le autorità civili, secondo padre Ronchi non potevano essere sospesi. Il rapporto di fiducia con il vescovo si incrinò e la componente conservatrice della comunità cattolica di Rancagua non tardò a definire padre Antonio un prete al servizio dei comunisti.
L’8 luglio del 1971 ci fu un’altra scossa di terremoto che sconvolse la zona centrale del Cile, distruggendo numerosi edifici di Rancagua. L’intendenza locale nominò padre Antonio assistente sociale. Lui agì con la consueta generosità evangelica, giustificando a posteriori le proprie decisioni, assumendosene la responsabilità (come quella di occupare provvisoriamente terreni per i terremoti senza avvisare i proprietari). I suoi detrattori trovarono un altro pretesto per accusarlo di sobillare la gente a occupare le terre. Fu quella l’unica volta che padre Ronchi, amareggiato, si lasciò andare a uno sfogo con i giovani del Gruppo Missionario di Cinisello: “Il mio lavoro come sempre è molto duro, soprattutto per certe travi che persone negative al progresso dei poveri mi stanno mettendo a ogni passo [...] sono caduto in disgrazia perfino coi miei superiori e con il vescovo. Per questo mi cambiano dalla zona in marzo [...]. E’ difficile fare il missionario quando vi sono interessi terrieri che sostengono i potenti a sfavore dei deboli [...]. Però i poveri mi stanno difendendo. Perfino mi hanno preso con la forza e rinchiuso per tre giorni interi in chiesa fino a quando hanno ottenuto dal vescovo uno scritto dove si impegnava parlare con miei superiori e a farmi stare un tempo ancora nelle attività sociali e apostoliche. Questo fatto mi ha aggravato la situazione e ha confermato le accuse di comunista, rivoluzionario, ribelle”.
La vicenda dell’occupazione della chiesa trovò vasta eco sulla stampa, ma questa azione servì solo a ritardare di un paio di mesi la sua partenza. Padre Ronchi si congedò da loro con un’omelia di forte intensità umana e spirituale.
Un contesto troppo conflittuale quello del Cile, dove le riforme di Allende avevano subito il boicottaggio delle società multinazionali, l’inflazione cresceva a ritmi vertiginosi e gli ambienti conservatori premevano sui militari perché ponessero fine all’esperienza del governo di Unidad Popular. Quindi, un contesto problematico per padre Ronchi, che avrebbe potuto procurargli altri guai. Da qui la scelta di trasferirlo in Patagonia.
Nel maggio del 1972 furono definiti accordi con la Congregazione che lo ponevano alle dipendenze del vescovo di Aysén, vincolato all’obbligo di osservare i voti dei religiosi e le prescrizioni delle Costituzioni. In assenza del vescovo doveva fare riferimento al Superiore Provinciale D’Argentina, al quale era chiamato a rendere conto del suo operato. Nonostante questi aspetti burocratici, padre Ronchi era contento di essere tornato in Patagonia dove la gente non si era dimenticata di lui.
Mentre era alla ricerca di aiuti alimentari per le popolazioni sempre più stremate dall’aumento dei prezzi dei generi alimentari, dalla capitale gli arrivavano notizie frammentarie sulla sanguinosa repressione attuata da Pinochet, che nel frattempo aveva preso il potere con un colpo di stato.
Nel 1976 ebbe modo di conoscere Antonio Horvath, allora direttore regionale della viabilità, che lo aiutò per un trasporto di un grosso quantitativo di vivevi e di chiodi, a seguito del quale nacque tra loro una solida amicizia. In questa sua seconda missione in Patagonia padre Antonio si ripromise di estendere maggiormente la conoscenza del territorio per raggiungere le zone più remote di quella regione. Il clima e l’ambiente misero a dura prova la sua resistenza; si trattava di regioni praticamente inesplorate che gli stessi militari conoscevano soltanto attraverso il pattugliamento delle coste. L’isolamento imposto dalle distanze rendeva ancora più urgente il collegamento via radio e per questo chiese agli amici di Cinisello di inviargli altre radio più potenti. Nei suoi progetti la radio continuava a mantenere un ruolo importante anche se stava convincendosi che il mezzo futuro sarebbe stato la televisione, tanto che si impegnò ad apprendere negli studi di Canal 8 l’uso delle tecniche audiovisive.
Intanto continuava la sua frenetica attività di sostegno alle popolazioni e di conseguenza la sua popolarità aumentò. Non tutti però approvavano il suo operato e spesso si vide costretto a fornire continue relazioni ai superiori sulle sue iniziative. Dal tono e dai contenuti di queste relazioni traspariva il fastidio per le ripetute intromissioni nella sua attività di missionario.
Nel 1978 i giornali tornarono a parlare di lui con titoli altisonanti come “l’eroica lotta di un missionario ad Aysén e a Coyhaique” oppure “il prete dalle mille soluzioni”.
In seguito alla morte di un militare cileno in quell’anno si verificò una delle frequenti crisi tra Argentina e Cile. I due governi, entrambi dittatoriali, decisero di chiudere tutti i passi bloccando comunicazioni e commercio tra le popolazioni confinanti; una decisione che danneggiò pesantemente la già compromessa economia delle comunità patagoniche.
Padre Ronchi, che aveva ottenuto un consistente aiuto in viveri e vestiario, si trovò nell’impossibilità di farli giungere a destinazione. Non ci pensò due volte: senza un soldo in tasca raggiunse il confine in autostop dove riuscì a convincere i gendarmi a farlo entrare nel loro Paese. Da lì, sempre con lo stesso mezzo, arrivò fino a Buenos Aires dove si mosse con l’abilità di un consumato diplomatico e ottenne il permesso di attraversare con un camion il territorio argentino per arrivare fino ad Aysén. Anche in quell’occasione approfittò della stampa per parlare del suo metodo missionario: migliorare le condizioni di vita per poter parlare di Dio alla gente, responsabilizzare le comunità, prestare attenzione alle loro esigenze, farsi portavoce con le istituzioni quando queste si mostrano sorde e lontane dai bisogni della gente. La stampa lo ripagò con parole di elogio e di sostegno: “il padre Antonio ha dimostrato che la fede sposta le montagne” - “gente così è da tenere al massimo rispetto. Io direi che deve essere venerata!”.
Nel 1982 gli proposero di tornare a casa dopo quattordici anni di missione, proposta che accettò con gioia in quanto aveva bisogno di riposo e di controlli clinici; gli estenuanti viaggi, l’alimentazione disordinata, i rigori del clima cominciavano ad intaccare la sua salute. Ma fu soprattutto contento di tornare perché avrebbe avuto l’opportunità di reperire risorse per i nuovi progetti che aveva in mente. Partì da Santiago con una lettera di raccomandazioni scritta dal vescovo monsignor Cazzaro, ma prima di raggiungere l’Italia fece numerose tappe.
Si andò dal fratello Luigi a Quito in Ecuador, dove risiedeva con la famiglia. Volò quindi a San Francisco negli Stati Uniti per incontrare padre Bourré. Partecipò a trasmissioni radiofoniche e televisive riuscendo a ottenere l’impegno a fornirgli un piccolo trasmettitore televisivo.
Allo scopo di ottenere aiuti per la Missione si recò a New York, Washington, Milwaukee; volò a Parigi, poi in Olanda e in Germania. Partì infine per Milano dove arrivò stanco e un po’ deluso, ma per nulla rassegnato. Tornò a Cinisello e venne accolto dalla famiglia e dalla comunità cristiana con grande affetto.
A Milano organizzò giornate vocazionali e consolidò il rapporto con Mani Tese e con la Caritas.
Per cercare altri finanziamenti andò in Francia dall’abate Obain che gli promise che la sua organizzazione A.A.T.M. (Aiuti al Terzo Mondo) gli avrebbe fornito vestiario e medicinali. Raggiunse in autostop Parigi dove incontrò l’abate Baudet che lo accompagnò presso un’associazione internazionale alla quale poté illustrare un progetto che gli stava particolarmente a cuore: il Banco Ganadero (Banca degli Allevatori), basato sull’acquisto di vacche gravide da affidare ai contadini per ripopolare le vallate. Non ottenne il consenso sperato ma non si perse d’animo; tornato a Milano si installò nella sede della Congregazione per chiamare mezza Europa e verificare a che punto fossero le pratiche di finanziamento dei suoi progetti.
Si recò a Roma dai suoi superiori che lo attendevano per ricevere informazioni sulla situazione della sua Missione e per sottoporlo agli esami clinici. Gli sistemarono i denti e gli diedero il responso univoco degli esami: “lei scoppia di salute”.
Tornò a Milano in tempo per la Settimana Santa; poi radunò a Barza d’Ispra tutto il clan dei Ronchi per tre giorni di ritiro spirituale dove predicò, confessò, celebrò messa e il Giovedì Santo lavò i piedi ai suoi cari. Pochi giorni dopo, rientrato a Cinisello, celebrò il matrimonio del nipote Roberto. Fu il suo ultimo gesto pubblico nella comunità cristiana; alla fine di giugno si congedò dai propri parenti lasciando loro poche regole essenziali rispetto alla fede e ai legami familiari e ricordando che alle 23 di ogni giorno avrebbe pregato per ognuno di loro.
Dopo una breve tappa negli Stati Uniti, fece rientro in Cile dove iniziò uno dei periodi di maggiore fervore organizzativo e apostolico, forte della sua profonda conoscenza della zona, di una fitta rete di rapporti e di un patrimonio di esperienze, di idee e di tecnologia acquisito in Europa e in America.
Riprese con fervore le attività di sostegno alla popolazione, non tralasciando il lavoro spirituale e vocazionale, organizzando corsi per missionari laici; quella delle vocazioni, anche femminili, divenne da quel momento una componente fondamentale della sua azione apostolica.
Fino alla sua morte continuerà a formare laici che potessero aiutarlo nella sua vastissima zona pastorale. Raccontava Marina Espinoza: “Per me rappresentò l’incarnazione stessa della dottrina sociale della Chiesa, perché i poveri della società erano i suoi prediletti. In quel momento il cura rasca entrò nel mio cuore”. Accanto a questi missionari laici itineranti, la modalità operativa di padre Ronchi prevedeva la costituzione in ogni comunità di due commissioni: una preposta al lavoro pastorale e morale e l’altra a quello sociale. Bisognava abituare le persone ad agire di comune accordo e con sollecitudine senza cadere in un rassegnato fatalismo attendendo passivamente l’intervento dello Stato.
Nel 1983 subì un’operazione al ginocchio che lo costrinse a letto per qualche settimana; passò quel periodo accanto alla radio e al telefono per tenersi informato sulla comunità. Dopo la convalescenza riprese in pieno le sue attività senza risparmiarsi; camminò un giorno e mezzo in pieno inverno trascorrendo la notte all’addiaccio per andare a celebrare messa con alcuni operai costretti in località sperdute per la costruzione di tratti della carretera austral. Per lui non esistevano imprese impossibili. Fu il primo a compiere a cavallo, nella stagione fredda, il tragitto tra Coyhaique e Villa O’Higgins; per due mesi non si ebbero sue notizie. Al ritorno raccontò di aver dovuto ammazzare il cavallo per non morire di fame. Altre volte invece era capitato che il destriero, sfinito per la fatica, fosse stramazzato al suolo privo di vita. Per questo uno dei soprannomi appioppatigli dagli aysenini fu el matacaballos (l’ammazzacavalli).
A primavera del 1984 arrivarono da Anversa due piroscafi con i prodotti alimentari ottenuti grazie all’abate Obain. Con evangelica generosità non li tenne per sé o per la sua gente, ma li distribuì alle diverse case guanelliane. L’assegnazione degli alimenti era un’operazione delicata perché fame e miseria avrebbero far potuto prevalere gli egoismi. Padre Ronchi era solito convocare i rappresentanti dei villaggi discutendo con loro i parametri per la ripartizione degli aiuti imperniati sul concetto di autosviluppo: cibo contro prestazioni a progetto. Un’impresa possibile soltanto in virtù del rapporto di fiducia e collaborazione instaurato con le commissioni dei singoli villaggi.
Sempre nel 1984 riuscì a ottenere tutti i permessi per trasmettere in venti posti distinti con stazioni radiotelevisive, diffondendo attraverso le sue mini stazioni anche i programmi della televisione nazionale del Cile. Le radio erano gestite da equipe di volontari, preparati da padre Ronchi, che davano notizie, trasmettevano musica, suonavano loro stessi e proponevano programmi su temi religiosi.
Iniziò a dedicarsi al progetto del Banco Ganadero, quando fu però costretto a interrompere l’attività per un delicato intervento al cuore. Per non allarmare i familiari, li informò a cose fatte soltanto l’11 settembre 1987: “mi hanno cambiato tutte le coronarie mediante quattro by pass utilizzando trenta centimetri di vena del mio stesso corpo. Mi sento come nuovo. Dio è molto buono e vuole che continui a lavorare per lui”.
Tornato ad Aysén, ovviamente in anticipo sui tempi previsti dai medici, preparò il colpo decisivo. Dal momento che la sua fama era ormai arrivata fino in Argentina, pensò a un progetto basato sul reciproco vantaggio che si sarebbe ottenuto da uno scambio di prodotti: mucche gravide e tori della razza Hereford, oltre a pecore e montoni provenienti dall’Argentina, in cambio del legname pregiato delle foreste aysenine. Ai primi del 1988 le comunità argentine e cilene conclusero un accordo di reciproca collaborazione: una partita di pali cileni per recinzione, per complessive 14 mila unità, da scambiare con cento mucche gravide, cinque tori, trenta montoni e cinquecentosettanta pecore. Quel patrimonio zootecnico avrebbe costituito il capitale del Banco Ganadero. Ai contadini padre Ronchi garantiva un sostegno in alimenti, l’affidamento di un certo numero di animali, impegnandoli con la firma di una convenzione a ritornare nei campi abbandonati per apportarvi le migliorie necessarie. Nell’arco dei tre anni avrebbero dovuto restituire parte del bestiame ricevuto, confidando nella nascita dei vitelli, rifondendo inoltre, sotto forma di legname, il corrispettivo dei viveri ottenuti.
Oltre a questi scambi, cercò di avviare momenti di vita comunitaria tra argentini e cileni, celebrando messa nei villaggi sul confine.
Agli inizi degli anni Novanta conobbe l’ingegnere Jaime Caro che riuscì a convincere a dargli una mano per installare turbine al fine di dotare di elettricità le comunità più appartate.
Quando monsignor Cazzaro fu trasferito e al suo posto arrivò monsignor Lazzarin Stella, ci furono nuovamente punti di frizione tra la Congregazione e padre Ronchi, che non si atteneva alle prescrizioni per quanto riguardava la somministrazione dei sacramenti. Lamentele e proteste per quel missionario che faceva di testa sua cominciarono ad arrivare alla segreteria del vescovo che doveva affrontare anche la questione delle emittenti radiotelevisive, per le quali non possedeva tutti i permessi. Il 3 marzo del 1990, durante una riunione del clero, padre Antonio fu messo sotto accusa e fu messa in discussione anche la sua buona fede. Lui inizialmente reagì d’impulso ma, recuperata la necessaria serenità, scrisse: “Io non sono stanco di lavorare e non chiedo di andarmene. Unicamente lascio nelle vostre mani la decisione di mandarmi via [...]. Chiedo nel caso di concedermi sei mesi per sistemare le cose avviate al fine di non creare problemi”.
La sua permanenza ad Aysén si era fatta insostenibile; venne definita la prima bozza di accordo con padre Bertocco per il trapasso dei beni mobili e delle attrezzature della radio. Ma padre Ronchi segnalò alcune difficoltà burocratiche per questo passaggio mettendosi comunque a loro completa disposizione. Il vescovo di Comodoro Rivadavia lo accusò di aver installato abusivamente un’antenna nella sua diocesi senza autorizzazione.
Nonostante queste polemiche interne al clero, la comunità continuò a considerarlo la sola persona capace di rappresentarla; infatti padre Ronchi nel marzo del 1990 scrisse al Presidente della Repubblica sollecitando nuovi progetti per la costruzione di strade; intervenne anche con le autorità governative per scongiurare la chiusura della miniera di Puerto Sanchez. Un ruolo pubblico e un consenso popolare che stridevano con le critiche ricevute dai confratelli e dal vicariato.
Il 18 aprile del 1991 il Superiore Provinciale, padre Carlos Blanchaud, dopo aver riconosciuto i meriti della sua attività e le sue buone intenzioni, gli comunicò che una parte del suo lavoro non era condivisa dal vescovo della diocesi e dai Superiori Maggiori. Gli venne chiesto di attenersi alle direttive pastorali e all’obbedienza che i Superiori gli ordinavano.
Nella seconda metà del 1991 ci fu un notevole fermento in tutta la regione in quanto arrivarono molte lettere d’appoggio a padre Ronchi da parte del sindaco della comunità, delle autorità, delle scuole, ecc. Tutte le lettere si concludevano con una richiesta esplicita affinché padre Ronchi rimanesse nella regione. Anche il giornale e la radio locale di Aysén spinsero in tal senso. Nell’ottobre di quell’anno, quando il trasferimento sembrava ormai deciso, il vescovo di Ancùd confermò il proprio interesse alla collaborazione con padre Ronchi.
Nel frattempo quest’ultimo aveva iniziato ad occuparsi delle migliaia di pescatori che lavoravano in condizioni drammatiche nell’arcipelago di Chiloé. La zona era fuori dalla sua parrocchia, ma poco gli importava. Non domandò niente a nessuno e cominciò a vivere con quella gente sola e disperata. Il 6 marzo 1992 in una relazione al Superiore Provinciale raccontò le sue attività apostoliche che secondo lui dovevano riguardare la promozione dell’uomo in ogni suo aspetto. Dopo aver ricordato alcune iniziative nella propria zona di competenza (una nuova chiesa, una casa alloggio, la riorganizzazione dell’emittente, due turbine idroelettriche, un ginnasio ed edifici comunitari), padre Ronchi dedicò l’ultima parte della relazione ai luoghi della pesca dove stava costruendo una chiesa, una scuola, un posto di pronto intervento, un’installazione della televisione, dell’acqua potabile, un piccolo ginnasio, un cantiere per le imbarcazioni, una fabbrica artigianale di prodotti ittici, ecc. Concludeva la relazione comunicando che si stava attivando per avere i carabinieri e la capitaneria di porto nella zona e indicava ai superiori la possibilità di un suo trasferimento nella diocesi di Ancùd per proseguire il lavoro di missionario di frontiera.
Padre Ronchi stabilì il proprio centro operativo a Quellòn, a sud dell’Isola di Ancùd, da dove intensificò le proprie visite alle diverse comunità di pescatori. In breve tempo quella zona, dominata dalla legge della forza bruta, dove i carabinieri durante le ispezioni quindicinali trovavano di frequente cadaveri appesi agli alberi e prostitute che vagavano tra gli insediamenti, iniziò a trasformarsi in un contesto sociale organizzato sulla base delle leggi dello Stato e sul valore della solidarietà.
Per favorire il sostegno delle famiglie alla vita solitaria di una comunità prevalentemente maschile, padre Ronchi, senza attendere regolari permessi, aprì una scuola, successivamente riconosciuta dal governo. Con l’erogazione delle sovvenzioni potè avviare il progetto per la costruzione di un ginnasio.
Per questa trentennale e instancabile attività a favore delle popolazioni, il governo volle conferirgli, in segno di riconoscenza, la nazionalità cilena.
Nel frattempo i familiari, che avevano cercato inutilmente di farlo tornare a casa, si attivarono per dare maggiore continuità e consistenza alla raccolta di aiuti per il Cile, dando vita alla Fondazione Madre della Divina Provvidenza. Con la collaborazione dei fratelli e del Gruppo Missionario, padre Ronchi riuscì ad aumentare la dotazione di macchinari nella propria zona di Missione. Il suo legame col Gruppo Missionario si estese anche alle istituzioni di Cinisello Balsamo, ciò permise di affrontare con più efficacia i problemi.
Silvia Petagna, una giornalista livornese arrivata in Patagonia nel 1996, scriveva: “Tutto quello che padre Ronchi possiede è una tonaca nera ormai logora e sudicia, con le tasche piene di medicinali perché ha il diabete alto, soffre di angina pettorale, ha quattro by pass, di cui uno solo funzionante. Ma la sua resistenza è incredibile: non ha una dimora fissa perché la sua vita è fatta di spostamenti continui. L’attaccamento alla sua gente lo spinge a superare qualsiasi difficoltà e nei rari momenti di sconforto si rivolge a Dio con canti e preghiere spagnole, intercalati dai cori degli alpini, ormai l’unico ricordo dell’Italia”. Parlando con lei, padre Ronchi ribadì il cardine della sua azione pastorale: “Qui non si evangelizza con le parole, ma con i fatti. Come missionario posso far capire a questa gente che Dio è vicino a loro solo se riduco il divario tra le mie parole e la loro vita. Una volta che riesco a dare loro quello di cui hanno bisogno, la mia opera è compiuta per sempre”.
In quattro anni a Puerto Gala aveva compiuto miracoli: la scuola funzionava, il generatore dava energia elettrica, la chiesa era stata ultimata, la radio trasmetteva ogni sera programmi musicali prodotti dagli stessi pescatori.
Nel 1997 il parroco di Cinisello, don Luigi Bosisio, impostò la Quaresima sugli aiuti per padre Ronchi e l’impegno della comunità cristiana trovò ulteriore sostegno nell’Amministrazione comunale che deliberò di destinare lo 0,8% dei primi tre titoli del bilancio di previsione per sostenere programmi di cooperazione allo sviluppo e interventi di solidarietà internazionale. Con quegli aiuti fu prevista la costruzione di un edificio di tre piani adibito alla lavorazione del pesce e ad attività di formazione professionale per i pescatori, oltre all’acquisto di materiali vari e di apparecchiature per la lavorazione e conservazione dei prodotti ittici.
Nel frattempo, sempre da Cinisello Balsamo, gli giunse un’altra buona notizia: il 12 ottobre 1997 l’Amministrazione comunale avrebbe conferito una Speciale Spiga d’Oro ai missionari. Tra i primi nomi incisi sulla scultura compariva quello di padre Antonio Ronchi.
Le conseguenze del suo massacrante impegno cominciarono a manifestarsi nel corso del 1996: faceva sempre più fatica a sopportare i disagi del clima e gli stenti imposti dai continui viaggi e dalle giornate di digiuno forzato seguite da pantagrueliche abbuffate. Ma lui non intendeva mollare. Andava avanti senza badare ai segnali d’allarme che il suo corpo gli inviava. I suoi superiori, informati della situazione, gli suggerirono di andare in pensione. Padre Ronchi andò su tutte le furie.
Il primo grave allarme si manifestò a Melinka alla fine di ottobre del 1997: un ictus gli annebbiò la vista e gli compromise l’equilibrio. Fu trasportato d’urgenza all’ospedale. La gente, sgomenta, aspettava informazioni dai giornali e dalla televisione. Venne immediatamente operato per favorire il flusso sanguigno. Oltre al fratello Luigi andarono a trovarlo amici, collaboratori e confratelli. Aveva iniziato la riabilitazione e tutto procedeva per il meglio; il morale era alle stelle perché ricevette un fax dal Parlamento che gli annunciava un carico di viveri per la comunità di pescatori.
Venne in seguito portato nella casa guanelliana di Santiago per la riabilitazione da dove, quasi presagendo quello che sarebbe capitato, lasciò una serie di indicazioni scritte per la prosecuzione della sua opera missionaria e nominò il senatore Antonio Horvath suo esecutore testamentario.
Il fratello Luigi, tranquillizzato dai sanitari, a metà dicembre rientrò a Quito, ma le condizioni di salute di padre Antonio cominciarono subito a peggiorare. La mattina del 17 dicembre chiamò una sua collaboratrice dicendole di avvisare il fratello perché stava morendo e chiese a un confratello di ricevere l’unzione degli infermi e l’assoluzione in articulo mortis. Alle 22 del 17 dicembre 1997 padre Ronchi spirava nell’ospedale dell’Università Cattolica di Santiago.
La gente della Patagonia, che aveva a lungo pregato per lui, si sentì sola. Orfana di un pastore che amava perché aveva testimoniato il Vangelo vivendo come loro, spendendo ogni giorno i propri talenti e il proprio carisma per migliorare le loro condizioni di vita, per dare dignità agli ultimi e per portare la parola di Dio. Un pescatore dell’Isla Toto, intervistato da una televisione locale, si domandò: “E adesso chi ci farà sognare?”.
A Santiago la salma fu vegliata per due giorni dai Servi della Carità e da una moltitudine di persone: personaggi della politica, della pubblica Amministrazione, della televisione, ma soprattutto pobladores che avevano lavorato con lui nelle Missioni e nelle Comunità di Base. Poi le sue spoglie mortali compirono in aereo l’ultimo viaggio verso l’amata Patagonia dove arrivarono il 19 dicembre, accolte da migliaia di persone.
I giornali e le televisioni gli dedicarono ampi servizi. La sera del 19 dicembre alle ore 20 si tenne la veglia funebre nella cattedrale di Coyhaique; il giorno successivo alle ore 15 si celebrò la messa prima che la salma iniziasse l’ultimo viaggio verso Puerto Aysén.
Il sindaco di Aysén si impegnò ad ampliare il cimitero per costruirvi entro un anno un mausoleo per padre Ronchi; la sua salma nel frattempo fu tumulata nella cripta parrocchiale. Il 21 dicembre venne celebrata dal vescovo monsignor Aldo Lazzarin Stella e dai confratelli guanelliani la messa di Resurrezione per la tumulazione delle sue spoglie.
Gli furono intitolate la Sala del Consiglio regionale dell’Aysén, una casa di riposo, un quartiere della città e una struttura per adulti disabili.
Alla fine del 1998 il sindaco di Puerto Aysén giunse in visita a Cinisello Balsamo per invitare le autorità locali e i familiari di padre Ronchi alla cerimonia di traslazione. Ai primi di gennaio erano partiti alla volta di Santiago il sindaco Daniela Gasparini, l’assessore Roberto Negri, don Luigi Bosisio e Maria, sorella di padre Ronchi, con il marito Gualtiero Alberti. Ricorda Daniela Gasparini: “Percepivo l’emozione che stava crescendo in quella comunità da tanti segni, ma ciò che preannunciava la grande partecipazione di popolo erano la reverenza e l’affetto che la gente riservava a Maria, la sorella di padre Ronchi."
Nel cimitero, ampliato e rimodernato, si stagliava il mausoleo. La forma a prua per ricordare i viaggi tra i fiordi e le isole, il legame profondo con i suoi pescatori, ma anche la missione affidata da Cristo a Pietro e agli apostoli; il legno per richiamare le immense foreste patagoniche e i suoi amati boscaioli; l’acqua a simboleggiare gli innumerevoli fiumi e corsi d’acqua di quella regione, ma anche la forza della corrente che metteva in movimento le turbine portando energia elettrica nei più sperduti villaggi; la tomba in pietra della Patagonia: quella che era diventata la sua terra.
A Puerto Aysén erano arrivate persone da ogni parte e con ogni mezzo, alcuni si erano messi in viaggio da tre o quattro giorni per non mancare all’ultimo appuntamento con il cura rasca. In prima fila le autorità di Puerto Aysén e di Cinisello Balsamo e i familiari, sull’altare il suo grande amico monsignor Bernardo Cazzaro, i confratelli guanelliani e don Luigi Bosisio. E sui banchi la sua gente, quella con cui aveva vissuto e sofferto.
Una folla enorme e commossa accompagnò il feretro dalla chiesa al mausoleo, mentre sul porto canale le sirene dei pescherecci salutavano il passaggio del loro amico missionario.
Negli anni seguenti il ricordo di padre Ronchi non si è affievolito, tanto che il suo nome è legato a vari gruppi giovanili di missionari, club sportivi, quartieri e molte altre organizzazioni religiose e comunitarie. Ricostruire l’insieme delle iniziative, delle manifestazioni o delle strutture che si richiamano a padre Ronchi rappresenta un’impresa ardua, destinata a non essere esaustiva per la molteplicità delle esperienze attivate in questi anni.
Il senatore Horvath presentò una mozione per la costruzione di tre monumenti a Puerto Cisnes, a Coyhaique e Isla Chiloé, nonché per la creazione di un museo e di un archivio.
Nel frattempo le Amministrazioni locali e i gruppi religiosi ne hanno mantenuto viva la memoria: a Puerto Cisnes la sua stanza è rimasta come l’aveva lasciata alla sua partenza; piccoli musei sulla figura di padre Ronchi sono stati allestiti a Villa O’Higgins e a Bahìa Murta; a La Tapera esiste una calle Padre Antonio Ronchi; a Puerto Ibañez una avenida e la radio locale portano il suo nome; a Caleta Tortel una sua statua fatta in legno da un giovane artista del luogo è collocata di fronte alla chiesa, alla radio e all’antenna parabolica che furono volute da padre Ronchi; a Villa O’Higgins si può apprezzare il paesaggio della Laguna Padre Antonio Ronchi; mentre le comunità dei luoghi di pesca gli hanno intitolato un’isola del Gruppo Gala; il gruppo musicale Los Lazos gli ha dedicato una canzone; il giornalista Roberto Gòmez Suàrez ha dato alle stampe un opuscolo a lui dedicato; nel 2002 Mylene Muñoz, un’insegnante di Puerto Gala, ha pubblicato il libro Los hijos de Ronchi. La sua vita è argomento di studio in molte scuole della Patagonia: a Coyhaqué allievi e insegnati hanno messo in scena Vida y obra del padre Antonio Ronchi. Nel dicembre 2005 è stata inaugurata, alla presenza delle massime autorità dell’XI Regione, la Barcaza Padre Antonio Ronchi, un traghetto in grado di trasportare trenta passeggeri, dodici automobili e quattro camion. Si è occupato di padre Antonio Ronchi anche Andrés Wood, uno dei registi emergenti cileni che ha girato il film La fiebre del loco. Nel 2000 è stata riconosciuta dal Ministero della Giustizia la Fondazione Opera Padre Antonio Ronchi per valorizzare il patrimonio spirituale che rappresenta la sua vita per la chiesa in generale e in modo particolare per le persone che hanno avuto la fortuna di conoscerlo.
I progetti della Fondazione sono stati appoggiati dai familiari, dal Gruppo Missionario e dall’Amministrazione comunale di Cinisello Balsamo. Grazie a questi aiuti, dal settembre 2001 il sogno di padre Antonio di portare l’elettricità a Puerto Gaviota è diventato realtà. Scriveranno al sindaco di Cinisello Balsamo da Puerto Gaviota: “Ieri sera abbiamo acceso la luce e abbiamo festeggiato sotto un metro e mezzo di neve”.
Nel 2009 a Cinisello Balsamo fu inaugurata una statua in memoria di padre Antonio Ronchi.
Per vedere alcuni brevi video su padre Antonio Ronchi:
parte 1,
parte 2,
via crucis parte 1,
via crucis parte 2,
radioteatro padre Antonio Ronchi,
museo padre Antonio Ronchi,
canzone dedicata a padre Ronchi, Fernando Becker, El Cura Rasca.
GALLERIA FOTOGRAFICA