LA PESTE A CINISELLO

di Ezio Meroni
da: Storia di una comunità - Sant’Ambrogio ad nemus in Cinisello.

La breve distanza che separa Cinisello dal borgo capopieve di Desio, "che riceve la peste direttamente dai Lanzichenecchi", induce a ritenere più che probabile una sgradita visita dei Lanzichenecchi anche nel villaggio di Cinisello; il morbo lasciato agli abitanti di Desio si propaga comunque in breve tempo in tutti i villaggi della pieve, trovandovi la strada già spianata dalle conseguenze di due carestie precedenti, a causa delle quali gli stessi parroci erano stati convocati nella chiesa prepositurale desiana per ascoltare la lettura degli ordini dell’arcivescovo e per organizzare gli interventi di ciascun curato nel proprio territorio.

A Cinisello gli effetti della carestia si annunciano già nel 1628, quando si registrano ben 33 decessi contro i 9 dell’anno precedente: la morte colpisce crudelmente i corpi già fiaccati dalla fame, quando le forze sono allo stremo, e proprio mentre gli occhi famelici scrutano la lenta, ormai troppo lenta, maturazione delle messi.

Ma il peggio deve ancora giungere.

L’anno seguente la mortalità tra la gente di Cinisello quasi raddoppia: il raccolto è stato sufficiente solo per qualche mese, così l’inverno e la primavera trascorrono in una calma relativa poi, all’approssimarsi dei primi tepori e dei primi temporali, i corpi esausti cedono di schianto: nei soli mesi di giugno e luglio del 1629 muoiono complessivamente cinquantadue persone. La miseria è così grande che il parroco Solari celebra numerosi funerali gratuitamente, senza percepire quei 32 soldi richiesti per la cera e l’ufficiatura.

E tutto questo accadde poco prima della calata dei Lanzichenecchi.

L’anno successivo la tragedia è al culmine, frutto della virulenza della peste congiunta alla persistente carestia.

Le disposizioni delle autorità sanitarie milanesi per fronteggiare il dilagante morbo giungono con grave ritardo e, solo alla fine di maggio, la nostra comunità può iniziare a organizzarsi:

"Noi, Consoli, Sindaci et huomini della terra di Cinisello eleggiamo et deputtiamo don Lorenzo Salazar, Giulio Cesare Zavatario e Gio.Batta Pinottino alla custodia della sanità in supraddetta terra, per procedere alli bisogni negl’interessi di Sanità e per procurare l’osservanza delle gride, et ordini del Tribunale di Sanità dello stato di Milano, e però preghiamo l’istesso Tribunale a concedere a detti R. Deputati patente di Autorità, mediante la quale possano meglio compire al proprio servitio di detta terra. In fede di che habbiam sotto scritto la presente di nostra mano.
In Cinisello 31 maggio 1630
Io Pavolo Vismara Console
Io Antonio Maria Biancho Sindaco
Io Dionisio Briosco
Io Francesco Solaro curato di Cinisello"

Quello che si costituisce è un vero e proprio Comitato per la sanità pubblica dotato di pieni poteri, peraltro indispensabili nella tragicità del momento: occorre non solo occuparsi del rispetto delle gride emanate dal Tribunale di Sanità, ma difendere il villaggio da forestieri, mendicanti e soldati - tutti possibili focolai di contagio - dal momento in cui il territorio della pieve è dichiarato sospeso, cioè isolato; è indispensabile inoltre organizzare un servizio sanitario per la cura degli appestati e per la loro sepoltura, così come è necessario provvedere all’accantonamento delle scorte alimentari - almeno quelle misere consentite dalla penuria del tempo - per sostenere gli ammalati in quarantena. Nè si può escludere la necessità da parte dei componenti del Comitato, del sindaco e del console di assumere responsabilità dirette nel campo giudiziario e penale, per questo la richiesta del sollecito invio delle patenti d’autorità è più che comprensibile.

Esattamente un mese dopo, alla fine di giugno, compare la prima testimonianza della diffusione del morbo a Cinisello. Scrive infatti don Francesco sul registro dei morti: "Adì 30 detto. Peste a Cinisello. Fu sepolto Battistino Bianco d’anni 17 in casa sua, per sospetto di male contagioso".

Ormai anche nel villaggio di Cinisello il terrore del contagio si diffonde a macchia d’olio tra la popolazione, ma questo non serve a stroncare il morbo, al quale cercano di opporsi in qualche maniera le autorità civili e religiose: prima seppellendo i cadaveri nelle stesse case appestate, poi sottoponendo le abitazioni a disinfezione con aceto, infine imponendo ai contaminati la quarantena. Nessun funerale viene celebrato per i morti di peste e i loro corpi sono inumati in apposite fosse comuni nel Lazzaretto posto fuori dall’abitato e situato sull’area dove sorgerà l’attuale cimitero di Cinisello di via Giordano.

Lo spettacolo del piccolo villaggio contaminato dalla peste non può richiamarci alla mente il ricordo delle cataste di cadaveri così tristemente consuete in quei mesi a Milano, dove si giunge anche a superare i 3.000 morti in un giorno e a contarne ben 140.000 al termine della pestilenza - tuttavia la sofferenza è un’esperienza essenzialmente personale, che supera la dolorosa aridità delle grandi cifre, per proporsi ovunque con la stessa struggente disperazione: nelle abitazioni dei nostri poveri contadini, nelle loro stalle ormai quasi spopolate, lungo i sentieri che portano ai campi e che paiono ogni giorno sempre più lunghi e faticosi da percorrere.

Il cardinale Federico non aveva esitato a esortare i parroci a prodigarsi in ogni modo in questi frangenti rammentando loro, con una lettera inviata ai vicari foranei, l’obbligo per il clero di amministrare i sacramenti, ma raccomandando anche i provvedimenti da prendere per proteggersi dal contagio.

Scavate le fosse fuori dall’abitato nel Lazzaretto, il parroco Solari fa erigere alla porta della chiesa un piccolo altare sul quale celebra la messa per la popolazione che vi assiste dal sagrato.

Don Francesco vive l’intera esperienza della carestia e della peste a Cinisello, coinvolgendosi in prima persona, ligio alle disposizioni dei superiori, fiducioso nella provvidenza e sensibile alle richieste del suo gregge.

Il battesimo doveva essere amministrato a tutti i neonati, anche a quelli chiaramente già affetti da peste, "anco con evidente pericolo d’infetione e di morte", così come la confessione, per la quale si consigliava l’effettuazione in un luogo aperto e arieggiato, badando a salvaguardarne il segreto. Nel caso in cui era necessario confessare un appestato impossibilitato a lasciare il proprio giaciglio, le disposizioni del cardinale consentivano di effettuarla "o dalla finestra o dalla porta".
Per l’eucarestia le precauzioni riguardavano soprattutto le mani del sacerdote, che inevitabilmente entravano in contatto con l’altra persona, per questo si consigliava di purificare "subito le deta nella fiamma della candela accesa, o pur in aceto preparato a tal fine, che si dovrà subito consumare nel fuoco, avertendo di non portare se non tante particole quanti saranno i comunicandi".

Molte volte don Francesco deve aver atteso a queste disposizioni di profilassi dopo la visita a un ammalato o il battesimo di una creatura che, appena nata, portava già in sé il tarlo della morte, e non pare difficile immaginare nel suo intimo l’umano contrasto tra la paura della morte e il dovere di servire il prossimo. Egli, come molti altri esponenti del clero, con alla testa lo stesso cardinale Federico Borromeo, dà in queste tristi circostanze una altissima dimostrazione di fede e carità cristiana.

I lutti

In genere le famiglie colpite dalla peste finiscono inesorabilmente per estinguersi o per piangere numerosi dei loro cari, favorendo la diffusione del morbo con la naturale solidarietà che si manifesta nei momenti più difficili tra le persone che si amano.

Il cardinale Federico Borromeo, col cuore colmo di dolore, pensa soprattutto a tutti i fanciulli che contraevano la peste nella dimora, alla mensa o nel letto paterno, "mentre si davano da fare per aiutare i parenti appestati, oppure mentre erano a loro volta assistiti dai famigliari. Moriva anche il fratello mentre assistiva il fratello, la sorella mentre assistiva la sorella, contaminandosi a vicenda durante il mutuo soccorso; morivano sia dopo i genitori sia prima di essi."

Nell’estate del 1629 e in quella successiva, i lugubri rintocchi delle campane del modesto campanile di Cinisello annunciavano quasi quotidianamente, ai pochi ancora in grado di recarsi nei campi e ai molti rinchiusi nelle case, consumati dal morbo o in quarantena, la fine di un’altra vita.

Non vi sono a Cinisello i carri stracolmi di cadeveri così tristemente famigliari a Milano, ma solo semplici e sbrigativi riti funebri, talvolta anche più di uno in un solo giorno, cui fa seguito il mesto trasporto della salma con un carro alla fossa comune del Lazzaretto, percorrendo lo stretto sentiero sul quale sarà poi tracciata l’odierna via Sant’Ambrogio.

Il contagio colpisce uomini e donne, giovani e vecchi, fanciulli e fanciulle, senza distinzione e con gli stessi sintomi: "bubbomi sotto le ascelle, nelle anguinaglie, et carboni in diverse parti del corpo, a’ quali mali le diverse creature non sopravviveranno quattro giorni ed al più sette, mentre fossero stati di forse robuste".

La prima vittima ufficiale della peste a Cinisello ha dato anche luogo a un curioso errore di omonimia da parte del parroco Rossi, il quale scrive, che "il pittore Battistino Bianco, che stava dipingendo la chiesa, si ammalò nella casa del parroco e fu sepolto senza funerale".
In realtà il Battistino Bianco in questione, come è annotato chiaramente, muore nella propria casa a soli 17 anni, troppo pochi per poter aspirare ad affrescare una chiesa parrocchiale. Inoltre egli è un abitante di Cinisello, e la sua famiglia è una delle prime a essere annientate dal morbo: in luglio muore sua madre Cecilia, il 20 agosto un suo fratello e il giorno seguente suo padre Antonio Maria Bianco, sindaco del villaggio.

La credenza che vuole il pittore Battistino Bianco defunto a Cinisello non trova riscontri neppure nelle notizie sulla stessa vita dell’artista, che fu "pittor valente ed ottimo nell’arte del getto" e morì sì di peste, ma a Genova e nel 1656.

Molti altri sono i fuochi devastati prima dalla fame e poi dalla pestilenza: Ambrogio Ratti, sua moglie Maddalena e due loro figli spirano tutti in meno di dieci giorni, così come Gerolamo Cairati, sua moglie Veronica e un loro figlio; la stessa sorte tocca ad un congruo numero di componenti delle famiglie Pedrazzi e Vanzago.

Dopo l’ufficializzazione della pestilenza a Cinisello, vediamo morire la moglie, la madre e due figli di Alessandro Strada, e in un tempo ancor più repentino due figli di suo fratello Giuseppe. Il contagio non risparmia le stesse case dei nobili, mietendo vittime tra la servitù, soprattutto quella al servizio della famiglia Pinottino.

Per tutto il 1630 la peste imperversa tra le case di Cinisello, e neppure i rigori invernali ne attenuano più di tanto la virulenza; è possibile notare un incoraggiante calo solo alla fine dell’inverno del 1631 quando, con il cuore gonfio di dolore, don Francesco Solari è ancora costretto ad annotare: "Adì 16 marzo 1631. Fu sepolto Steffano figliolo del q. Alessio Monti morto di peste". E’ l’ultimo indizio della peste rintracciabile a Cinisello, questa volta però le autorità governative, memori degli errori passati, preferiscono far trascorrere qualche mese prima di dichiarare ufficialmente scomparso il pericolo del contagio. Infatti, tanto nella città di Milano quanto nelle pievi, solo nel 1632 verranno abrogate le norme preventive e l’isolamento.

In un triennio a Cinisello muoiono, di carestia e di peste, quasi duecento persone, circa un terzo dell’intera popolazione.

Tutto lo stato di Milano è ridotto in condizioni miserevoli, esangue per la perdita di gran parte della sua ricchezza umana, ma non ancora prostrato: basteranno pochi anni di relativa calma e di raccolti soddisfacenti per dar modo ancora una volta alla gente di Lombardia di riprendersi e di rinserrare le fila, pur in un ambito economico che tende inevitabilmente a seguire la linea di decadenza della Spagna.

Spesso i primi e tangibili sintomi di ripresa giungono proprio dalla fede delle popolazioni che, superata la peste, erigono in ringraziamento a Dio nuove e più ricche chiese.

Vai alla scheda: "Croce stazionale o crocetta via Stalingrado angolo via Milazzo".

Vai alla scheda: "Croce stazionale o crocetta piazza Gramsci".

Vai alla scheda: "Croci stazionali o crocette".



GALLERIA FOTOGRAFICA

Lazzaretto a Milano

Lazzaretto a Milano

Lanzichenecchi

Camillo Landiani il Duchino, Federico Borromeo amministra i Sacramenti agli appestati, particolare (Duomo di Milano)