"Non c’è nessun vascello che, come un libro, possa portarci in paesi lontani…"
Emily Dickinson
Togliamo i libri dagli scaffali per ridare loro voce e vita
Ci piace pensare ai libri come qualcosa di vivo in cui chi scrive regala al lettore uno sguardo sul mondo, e ogni lettore poi lo accoglie in sé e lo trasforma: a volte, nei casi più felici, trasformando anche se stesso, in un processo vitale in cui le sfaccettature di un testo si moltiplicano all’infinito. Noi vorremmo continuare ad ascoltare l’eco di questo processo.
In questo incontro parleremo del libro
I miei piccoli dispiaceri di Miriam Toews
Forse è vero che uno scrittore scrive sempre di sé. Forse la grandezza di uno scrittore sta proprio in questo, nello scrivere sempre di sé mentre in apparenza scrive d’altro, riuscendo ad allargare la propria esperienza personale, trasformandola in qualcosa di universale. Dieci anni fa avevo letto, restandone molto colpita, “Un complicato atto d’amore”, di Miriam Toews. Avevo appreso della comunità mennonita a cui il suo fondatore, l’olandese Menno Simons, aveva dato regole severissime nel lontano 1540. E tuttavia le stesse regole che hanno qualcosa di implacabile sono tuttora valide ai nostri giorni nella cittadina di East Village, nel Manitoba, in Canada, dove vive la famiglia von Riesen, per molti versi simile alla famiglia Nickels del primo romanzo di Miriam Toews. Padre, madre, due sorelle. Un padre ossequioso alle leggi, una madre con una straordinaria energia vitale, una sorella maggiore decisamente ribelle e infine lei, la sorellina di sei anni più giovane, voce narrante di “I miei piccoli dispiaceri”.
Quella che Yolandi, alter ego di Mriam Toews, racconta, è una storia autobiografica. E’ la storia del viaggio verso la morte della sorella Elfrieda. Una morte cercata, voluta, desiderata, implorata. E’ una storia tristissima. Potrebbe essere solo una storia tristissima se non fosse che il piatto della bilancia della disperazione è equilibrato da quello traboccante del brio, dell’umorismo e della forza positiva di Yolandi. Elfrieda è in ospedale. Una volta, due volte. Non c’è il due senza il tre. Si riesce veramente ad impedire a qualcuno di suicidarsi, se proprio vuole? Elfrieda aveva chiesto aiuto alla sorella, unita a lei da un legame fortissimo, perché la aiutasse a ricorrere alla morte assistita. E Yolandi prende in considerazione la possibilità in pagine che oscillano tra il macabro e il comico mentre si informa su google dei costi in Svizzera, oppure in Messico dove, però, bisogna addentrarsi in quartieri pericolosi (pericolosi per chi? per chi sarebbe felice in ogni caso di morire in qualsiasi maniera?) per procurarsi i medicinali letali, chiedendo nello stesso tempo ad un amico avvocato se lei, Yolandi, corresse il rischio di essere incriminata per averla aiutata. E poi, ha senso sorvegliare a vista una persona se c’è forse un gene ereditario che spinge al suicidio? nella loro famiglia si erano suicidati il padre, una cugina…
Si parla tanto di morte, cercata, arrivata per caso a chi non se l’aspettava (una zia venuta ad aiutare la madre), e tuttavia, parallelamente, si esalta la vita. E’ difficile far combaciare le due figure di Elfrieda, quella ormai trasparente nel letto di ospedale e quella dagli occhi verdi, il sorriso smagliante e i capelli al vento che aveva suonato Rachmaninov sfidando gli anziani della comunità che erano venuti per opporsi alla sua musica (peccaminosa) e alla sua iscrizione all’università (il posto delle donne è a casa, a fare figli), Elfrieda iconoclasta che lascia la sua firma in rosso sui muri, Elfrieda grande pianista capace di commuovere le folle, Elfrieda che aveva tutto, proprio tutto, anche un marito che la adora e un agente che arriva dall’Italia con un enorme fascio di fiori, Elfrieda maestra di vita della sorellina che è il suo opposto, casinista, squinternata, due figli da due diversi mariti, un divorzio in corso, un romanzo iniziato, senza capo né coda, che si porta dietro in un sacchetto del supermercato. Eppure, tutto l’amore, del marito, della sorella, della madre (personaggio straordinario nella sua stravagante ingenuità e purezza di cuore), non è sufficiente per ancorare Elfrieda.
Fortemente drammatico e teneramente buffo, spruzzato di riferimenti letterari (il titolo è una citazione di Coleridge, uno dei ‘fidanzati letterari’ di Elfrieda di cui Yolandi è gelosa), “I miei piccoli dispiaceri” è opera di una scrittrice che sa costruire un mondo su ogni frammento di ricordo.
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Tutti gli incontri si terranno al Pertini, piano interrato, alle ore 16.00
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