La Mia Crocetta
Intervista a Emmanuele Bianco

Il Sindaco Daniela Gasparini ha incontrato Emmanuele Bianco, autore del libro “Tiratori scelti”, edito da Fandango, un giovane nato e cresciuto nel Quartiere CROCETTA.
Pubblichiamo qui la sua intervista.


Emmanuele Bianco: chi sono
Sono nato a Milano nel 1983. I miei sono calabresi, emigrati al nord in cerca di lavoro. Ho preso un diploma di perito elettrotecnico e poi sono andato a studiare in una scuola di scrittura a Torino, per due anni, la scuola Holden. Lì ho studiato e mi sono esercitato tutti i giorni nella scrittura creativa. Poi mi sono trasferito a Roma, dove lavoro come assistente alla regia, un lavoro molto precario in un mondo precario in generale.

Che cosa pensi del quartiere Crocetta?
È il mio quartiere, quello dove sono cresciuto insieme a tutti i miei amici, quello dove vivono i miei genitori. Non c’è mai stato niente nel mio quartiere, o l’oratorio o la strada. Un piccolo alimentari, qualche bar e qualche tabaccaio. Solo palazzi. Nonostante questo ne vado fiero, perché è in quartiere che ho realizzato le amicizie vere, quelle che durano per sempre. Credo mi abbia insegnato più di ogni altra cosa il rispetto e abbia sviluppato più di ogni altra cosa il mio senso d’appartenenza a una categoria ben precisa: quella di gente umile che cerca di andare avanti tra un miliardo di difficoltà.

Secondo te, quale sarà il futuro di questo quartiere? E, più in generale, della città di Cinisello Balsamo? In particolare, qual è il desiderio che vorresti si realizzasse per il quartiere?
Il mio quartiere sta cambiando faccia. Come tutta Cinisello, come Milano, come l’Italia in generale. Sono gli immigrati a cambiare la faccia del mio Paese. Che piaccia o meno è così, perché si va avanti. Quello che vorrei per il mio quartiere è una convivenza pacifica e proficua tra italiani e immigrati. Il fenomeno dell’immigrazione è un aspetto da tenere sotto controllo attraverso l’integrazione. Vorrei che italiani e immigrati si rispettassero a vicenda e che vivessero in pace. So che ci vorrà del tempo, come serve a qualunque territorio per trovare un proprio equilibrio. Questo si può realizzare solo se c’è un impegno quotidiano da parte di chiunque, istituzioni e cittadini. So che c’è una proposta per avere un mercato in quartiere. Questa mi sembra una bella idea. La gente al mercato parla, s’incontra, si conosce.


Tu non vivi più da anni in Crocetta, ti sei allontanato per esigenze di studio e lavoro. Ma ci torneresti a vivere? Pensi alla Crocetta ancora come ad una “casa”, luogo in cui poter mettere le radici?
Quando parto per tornare in Crocetta, a chi mi chiede dove vai, rispondo: vado qualche giorno a casa. Io non abito più a Cinisello da sette anni, ma la sento ancora casa mia. Non credo che tornerò a viverci, ma semplicemente perché ormai ci sono molte cose che mi legano a Roma, che è la mia città da cinque anni. E poi, ma questa è una mia natura, non potrei pensare di stare per tutto l’anno in un posto. Infatti appena posso vado spesso in Calabria, un altro luogo che considero “casa”. Per fortuna mi capita di spostarmi spesso per lavoro (quando lavoro) quindi anche Roma non mi stanca.


Nell’incontro con il sindaco hai definito il tuo libro “una dichiarazione d’amore verso il tuo quartiere”, mentre qualcuno pensa proprio il contrario. Come sostieni questa tua affermazione?
Io credo che non ci sia forma d’amore più vera dell’onestà. In questo senso ho scritto un romanzo onesto. In 257 pagine non c’è un solo giudizio, una sola morale. Questo è stato un rischio che mi sono preso. Non è normale scrivere un romanzo che parla anche di cocaina e non suggerire una morale, o dare giudizi. Questo ho potuto farlo perché l’io narrante cambia di volta in volta, ogni personaggio ti racconta il suo abisso, le sue speranze, i suoi incubi, le sue paure. Ogni personaggio ti narra direttamente la sua rabbia e il suo amore: lo fa guardandoti negli occhi e compiendo dei gesti. I miei personaggi non si piangono addosso ma cercano di andare avanti, come possono, come riescono. Per questo può infastidire molta gente, perché questa società non è più abituata a un contatto vero, ma si spara indifferenza direttamente in vena. Ultimamente ho presentato il romanzo a Corviale, una periferia romana molto famosa per un palazzone lungo un chilometro che contiene milleduecento appartamenti. Un paio di ragazzi di Corviale hanno letto il libro e hanno colto immediatamente i sentimenti che volevo esprimere: appartenenza, amore, rabbia scomposta e sentore di abbandono. Fino ad ora la recensione più vera e bella che ho ricevuto è stata quella di un giornale universitario, una ragazza di borgata ha colto con una precisione tale il senso di Tiratori Scelti che quasi quasi mi sono commosso. In una recensione di una pagina accenna appena alla cocaina, credo che abbia focalizzato pienamente la percezione del libro perché svincolata da una lettura politicizzata e perché essendo di una periferia ha potuto immedesimarsi a pieno nel romanzo. Molti hanno definito il mio libro un libro cupo, triste, senza via di scampo. Sono d’accordo, è un libro che ti può dare un pugno in pancia, ma credo anche che in questo momento non ci sia niente da ridere e scherzare. Soprattutto per i giovani. Avrei potuto raccontare personaggi felici, realizzati, in pace con se stessi e con gli altri. Ma a me per primo non interessava raccontare di ragazzi felici, realizzati, con un futuro sereno e ricco d’opportunità. Sarebbe stato un romanzo di fantascienza, e non credo di esserci portato. Per raccontare questa storia ho cercato di calarmi nelle voragini dell’essere umano, magari non ci sono riuscito totalmente, ma l’intento era quello. In questo senso il mio libro è un atto d’amore, si sforza di cogliere l’origine della realtà, perché in fondo la realtà ognuno la coglie a modo suo.

Puoi spiegare il titolo della tua opera? Perché proprio “tiratori scelti”, una metafora di guerra (così come la “Trincea”)?
Tiratori scelti è un titolo che allude immediatamente alla cocaina. Questo è semplicemente un gioco di significati. Chi legge il romanzo s’accorgerà che i miei protagonisti vivono in una società in guerra. Il consumismo, la ricerca di un’estetica canonica, la legge del cash, l’anestesia delle coscienze. La mancanza di un lavoro decente, un’idea di futuro che è un buco nero. Una società che vive di attimi e di colpi di culo è una società in guerra. I Tiratori Scelti sono tutti coloro che hanno una sola possibilità di centrare il bersaglio. La Trincea dove si svolge il mio libro è una prima linea di una guerra, il tiratore scelto è un ruolo di un soldato specializzato, che non ha molte occasioni di fallire il bersaglio. In periferia la gente non ha il culo parato, di solito: un colpo solo, per colpire il bersaglio e realizzarsi. E non è detto che questo avvenga.


Tiratore scelto, detto anche “cecchino”, è un soldato addestrato ed equipaggiato per colpire con precisione bersagli molto distanti. Qual è il bersaglio dei tuoi “tiratori scelti”(se c’è un bersaglio)..?
Il bersaglio di ogni tiratore scelto è personale. È indispensabile avere un progetto. I bersagli sono tanti e lontani, purtroppo. C’è chi sogna di fare un mestiere particolare, chi semplicemente vede come miraggio l’acquisto di una casa. I bersagli dei tiratori scelti sono i sogni che ciascuno tenta di realizzare.

Il tiratore è colui che sta in prima linea, ma nascosto: i tuoi personaggi da chi si nascondono (se si nascondono)?
I miei personaggi non si nascondono, ma sono stati nascosti. Messi ai margini. Nonostante questo, inconsapevolmente si mimetizzano con il territorio: nell’abbigliamento, nei comportamenti, nel modo di parlare. Come i tiratori scelti che stanno in una guerra vera portano rispetto al territorio, presidiano la propria zona, e da lì tengono sotto tiro il bersaglio. Sono lontanissimi, per questo la capacità di tiro e l’obiettivo in continuo movimento fanno sì che il colpo difficilmente raggiunga il bersaglio.

Infine, il cecchino viene considerato anche come un’arma psicologica…può valere anche nel caso dei tuoi personaggi e, se sì, perché?
Il cecchino, in una guerra vera, è stato messo lì da uno schieramento per “intimidire” il nemico. Nella guerra metaforica del mio romanzo i tiratori scelti combattono per loro stessi e per nessun altro, ma alla fine finiscono per fare il gioco della società nei confronti della quale cercano riscatto.

Il tema della droga sembra occupare uno spazio importante nelle tue pagine, tu contesti il fatto che i giornalisti abbiano dato però una lettura sbagliata ed “eccessiva” di questo tema. Che cosa pensi in merito?
Non una lettura eccessiva in termini di quantità. Il mio romanzo è pieno di cocaina. La cocaina è ossessiva, ossessionante, quindi ricorre in modo ossessivo nelle mie pagine. Ma è il mezzo, non il fine. Un mezzo narrativo con il quale andare a fondo nell’anima dei personaggi, nelle vicende narrate. È facile indignarsi davanti al tg, quando si dà la notizia di un incidente mortale causato da un giovane drogato. Questo è molto facile, infatti l’indignazione dura giusto il tempo di uno spicchio di mela a fine pasto. Fare un passaggio in più per provare a capire perché certe cose accadono ti rende umano. La scoperta della propria umanità è la cosa che più spaventa. Per questo si fa finta di niente e si va avanti. Ipocrisia e moralismo sono le parole d’ordine. Alcuni giornalisti hanno visto solo l’allarme sociale, il disagio giovanile. Hanno visto solo la cocaina, quando il mio libro è pieno di droghe in genere e c’è tantissimo alcol. Hanno visto solo questo perché è la moda, se ne parlerà per qualche tempo e poi basta. Hanno visto un disagio giovanile, quando invece non c’è cosa più personale del disagio, che al massimo può essere generazionale e non giovanile. Se un cinquantenne perdesse il posto di lavoro e diventasse alcolizzato in seguito a questo trauma quello sarebbe il disagio di un cinquantenne e non di un ventenne. Mi pare che l’Italia stessa sia in un periodo di particolare disagio etico e culturale, quello economico non è che una conseguenza. Sono convinto che se uno scrittore sessantenne avesse scritto un libro come il mio, ambientandolo nei salotti borghesi, dove i personaggi sono tutti ricchi sfondati e annoiati e hanno tutti sessantanni il concetto di disagio sarebbe stato molto diverso. Non ci vuole molto a inventarsi quattro tarantelle sulla cocaina. Ricostruire uno scenario, emozionare attraverso la scrittura, creare empatia col lettore, andare fino in fondo per cercare brandelli di sentimenti autentici nei personaggi, quello è un lavoro che quando ti metti a scrivere ti toglie il respiro. Eppure sono tutti molto più interessati alle tarantelle sulla cocaina. Esistono centinaia di libri e dozzine di film sulla cocaina, anche decisamente più precisi e interessanti del mio romanzo. Molti hanno fatto una lettura parziale e politicizzata di Tiratori Scelti. Lo vedi quanto è facile che il mio libro, che non esprime una morale manco a pagarla oro, venga visto in maniera moralista. Assurdo. Tra l’altro i miei personaggi non vivono un disagio personale ma, come milioni di altri individui, fanno i conti con gli abissi che tutti noi abbiamo dentro.

Sul tuo libro è stato scritto molto, fra le recensioni emerge un’attenzione speciale al mondo giovanile. Il quadro che ne emerge sembra essere molto negativo. “Giovani in precario equilibrio, con sguardi pieni di ferocia e rabbia per ogni ascolto mancato, pronti ad azzannare un nemico invisibile, ma che sentono comunque sempre presente, minaccioso e vivo. Una generazione cresciuta con i gangster movie, che non ha mai avuto voglia di studiare e che quindi affronta la precarietà di tutto senza avere gli strumenti per accettare il dolore, la sconfitta, il desiderio. Quelli in “Trincea” sono giovani griffati dalla testa ai piedi che sanno cosa significhi benessere economico e, laddove vi è solo un desiderio, lo trasformano in realtà senza scrupoli e senza remore. Così il denaro diventa l’unico miraggio, che offusca sentimenti e idee perché il solo a poter trasformare un nessuno in uno che conta. Giovani che non pensano sia necessario sapere, farsi un’opinione, avere dubbi, come se le sorti del loro paese non li riguardassero, perfetti esemplari di un’altra Italia non più proletaria ma non ancora piccolo borghese che vive ai bordi delle metropoli, nelle nuove case della speculazione”. Condividi questa lettura così cruda? Lo ritieni un giudizio realistico? Centra i tuoi obiettivi (o meglio..”era questo che volevi trasmettere”)? Come lo motivi?
Questo giudizio è abbastanza preciso nella misura in cui esprime un quadro sociale ben definito, quello che tutti conosciamo. Questa è una società che vive di attimi, semplicemente perché non c’è uno straccio di progetto collettivo per il futuro. Quando era giovane mio padre il messaggio era: lavora, cerca di risparmiare, realizza i tuoi sogni, ce la puoi fare se fai sacrifici. Ora il messaggio è: spendi, divertiti, compra, non ci pensare, il domani è incerto, fottitene. E se non hai i soldi perché sei un pezzente, fatteli prestare. Ma quando mai ci sono state così tante agenzie disposte a farti prestiti? La gente s’indebita anche per fare le vacanze estive. Questo giudizio centra anche un altro aspetto, quello di una società individualista. Le sorti del paese sono una cosa lontana e deprimente. È stata distrutta un’idea di collettività, d’aggregazione. I giovani di strada hanno una cultura molto assimilabile a quella dei vecchi di paese. Quella dell’esperienza provata sulla propria pelle, per questo sono scettici e diffidenti. Guardiamoci negli occhi. Le fondamenta per avere una vita normale sono un lavoro stabile, meglio se gratificante, e una casa dove tornare, meglio se di proprietà. Oggi come oggi queste due fondamenta poggiano su un lago ghiacciato, basta un niente per spaccare tutto e cadere giù.