VERGANTI FRANCESCO

Nacque a Milano il 13 giugno 1917. Celibe, era residente a Cinisello Balsamo in via Milano 6 (oggi via della Libertà). Svolgeva la professione di macellaio prima della chiamata alle armi.

Arruolato nell’Esercito, era sergente maggiore in forza al 9° Reggimento Fanteria di stanza a Rodi (Grecia, all’epoca isola italiana).

Fu dichiarato disperso nelle acque del Mar Egeo, nei pressi dell’Isola di Goidano, l’11 febbraio 1944 per l’affondamento del piroscafo Oria (in realtà la data corretta è il 12 febbraio, giorno del’affondamento del piroscafo).

Dal verbale di scomparizione e di morte, redatto il 31 marzo 1955 a Roma e trascritto nei registri anagrafici del Comune di Cinisello Balsamo, si legge: "[...] il militare in argomento era a bordo del Piroscafo di cui si sconosce il nome, partito da Rodi nel pomeriggio dell’11 febbraio 1944 per il trasporto in deportazione di oltre 4000 prigionieri italiani in mano tedesca; che il detto Piroscafo naufragava la sera stessa dell’11 febbraio 1944 in prossimità dell’isola di Goidano (Egeo); che il Sergente Maggiore Verganti Francesco non è compreso fra i pochi naufraghi recuperati e che di lui nulla si è saputo dalla data del sinistro; poichè a seguito di detto avvenimento il Verganti Francesco è scomparso, non essendosi avute più sue notizie da oltre due anni e tutte le modalità del fatto inducono a ritenere che il medesimo sia perito nelle predette circostanze di tempo e di luogo. [...] Dà atto della scomparizione di Verganti Francesco e dichiara che il medesimo debba ritenersi perito addì 11 febbraio 1944 nelle circostanze di cui sopra".

Fu decorato con Croce di Guerra al Valore Militare.

Il suo nome compare sulla lapide Ai dispersi della seconda guerra mondiale sita nell’atrio del Palazzo comunale in piazza Confalonieri 5.

PER APPROFONDIRE

Nell’autunno del 1943, dopo l’Armistizio e la resa delle truppe italiane in Grecia, i tedeschi iniziarono a trasferire decine di migliaia di prigionieri italiani via mare. Questi trasferimenti vennero spesso effettuati usando carrette del mare, stipando i prigionieri oltre ogni limite consentito e senza nessuna norma di sicurezza. Diverse navi affondarono a causa dell’attacco degli Alleati o in seguito ad incidenti, con la conseguente morte di migliaia di prigionieri.

L’Oria (piroscafo di fabbricazione norvegese) fu tra le navi scelte per il trasporto dei prigionieri italiani. L’11 febbraio del 1944 salpò da Rodi (Dodecaneso, Grecia) diretto a Il Pireo (Comune e porto della Grecia) con a bordo 4046 prigionieri (43 ufficiali, 118 sottufficiali, 3885 soldati), 90 tedeschi di guardia e l’equipaggio.

Il giorno successivo l’Oria fu colto da una tempesta, resistette fino a sera, ma con l’oscurità andò a cozzare contro lo scoglio Medina e affondò presso Capo Sounion (promontorio dell’Attica, Grecia). Poiché in quel punto i fondali vanno da cinque a trenta metri, l’Oria calò di poppa nei flutti, lasciando fuori dall’acqua la parte prodiera, incastrata nei massi.

Solo il giorno seguente, il 13 febbraio, tre rimorchiatori italiani e due greci accorsero in aiuto dell’Oria. Tentarono di avvicinarsi al relitto emergente, ma le proibitive condizioni del mare impedirono qualsiasi efficace manovra. Solo il Vulcano poté portarsi vicino al rottame e salvare un soldato che ancora si reggeva ai cavi; gli altri rimorchiatori raccolsero qualche naufrago ancora vivo e alcuni cadaveri. Altri corpi furono invece trascinati dal fortunale sulla costa dell’Attica. Il personale del Vulcano avvertì che dentro le lamiere dell’Oria c’erano delle persone ancora vive e, con grande rischio, mise in opera la fiamma ossidrica per aprire un varco, deciso a strappare alla morte i naufraghi che invocavano soccorso dalle stive e dai gavoni. Purtroppo un colpo di mare strappò l’apparato autogeno del Vulcano. Soltanto il giorno seguente il Titano, subentrato all’unità gemella con nuove bombole e cannelli, operando finalmente in condizioni di minor violenza marina, riuscì a liberare cinque uomini che sembravano impazziti.
In totale furono salvati solo 21 italiani, 6 tedeschi e 1 greco. Tutti gli altri persero la vita.
Si trattò di uno dei peggiori disastri navali della storia dell’umanità. Il peggiore nel Mediterraneo.

Per anni i militari deceduti rimasero anonimi, ma successivamente, grazie all’impegno di alcuni subacquei greci coordinati da Aristotelis Zervoudis, la tragedia dell’Oria venne alla luce.
Questi subacquei compirono numerose immersioni sul sito dell’affondamento, documentando l’entità della tragedia. L’impatto emotivo e umano di quello che videro fu così forte che li spinse a coinvolgere la comunità locale. Indagarono presso gli anziani dell’isola e riuscirono a identificare il luogo della pietosa sepoltura dei corpi spiaggiati dopo l’affondamento. Proposero l’edificazione di un monumento sulla spiaggia del naufragio (al largo di Capo Sunion - 37° 39’ latitudine nord, 23° 59’ longitudine est). Tutta la comunità locale partecipò a questa iniziativa e il sindaco decise di mettere a disposizione dei fondi.
Contemporaneamente, alcuni parenti dei militari italiani deceduti nel naufragio riuscirono a rintracciare la lista di tutti i militari imbarcati. Questa lista è stata per anni uno dei misteri dell’Oria: ritenuta inesistente, era in realtà scomparsa nei polverosi archivi italiani. Finalmente Barbara Antonini, il cui nonno era scomparso nel naufragio, riuscì a rintracciare la lista presso la Croce Rossa.

Stralcio della lista dei caduti dell’Oria dove risulta anche Francesco Verganti


GALLERIA FOTOGRAFICA

Il piroscafo Oria

Immersione alla ricerca dei relitti dell’Oria

I resti del piroscafo

Gavette e posate sul fondale

Piccola cappelletta votiva sul luogo della sepoltura dei marinai annegati e spinti fino alla costa dalla forza del mare