LA DEPORTAZIONE DEI LAVORATORI NELL’AREA INDUSTRIALE DI SESTO SAN GIOVANNI

di Giuseppe Vignati
Fondazione Istituto per la storia dell’età contemporanea

La ricerca di Giuseppe Valota, presidente dell’A.N.E.D. (Associazione Nazionale ex Deportati) di Sesto San Giovanni (Milano), sulla deportazione politica a Sesto San Giovanni, pubblicata con il titolo Streikertransport, assume una particolare importanza perché ha messo in luce, sia le grandi dimensioni della deportazione politica dei lavoratori, a partire dagli scioperi politici del marzo 1944, sia le sue connessioni con la Resistenza.

Questo lavoro, durato oltre quindici anni, ha dato un nome e un volto a 553 lavoratori deportati nei lager e a 9 prigionieri fuggiti dai vagoni piombati, e ha consentito di compilare, sulla base di fonti bibliografiche e documentarie, puntuali schede biografiche. Il lungo lavoro di raccolta di oltre 130 testimonianze di ex deportati e dei loro familiari, ha permesso la pubblicazione di 33 tra interviste e testimonianze e di 4 diari inediti di ex deportati.

Come Sesto San Giovanni ha potuto diventare il simbolo della lotta operaia contro il nazifascismo?

Un quadro generale

Per tutto il secolo XIX Sesto San Giovanni fu un borgo rurale e un luogo di villeggiatura delle classi abbienti milanesi. Contava meno di 5000 anime.

Dal 1840 il borgo fu attraversato dalla seconda linea ferroviaria italiana, la Milano-Monza, destinata ad allungarsi sino al confine svizzero e a collegarsi, dal 1882, con il centro Europa attraverso la galleria del San Gottardo. Dai primi anni del Novecento Sesto San Giovanni divenne quindi centro dell’asse Greco-Niguarda-Monza, percorso dalla linea ferrovia internazionale, da una tramvia elettrica interurbana e dal grande stradone napoleonico che univa piazzale Loreto (Milano) alla Villa Reale di Monza.

Le vaste aree rurali liberate dalla crisi dell’agricoltura di fine Ottocento furono oggetto dei piani di sviluppo delle società immobiliari che facevano capo agli imprenditori Breda, Marelli, Falck e Pirelli che vi avrebbero insediato e/o trasferito le loro aziende, costituendo il Quartiere industriale raccordato; nasceva così l’area industriale di Sesto San Giovanni. Si incardinava nel borgo l’espansione dell’industria siderurgico-meccanica, costretta a uscire dai vecchi quartieri industriali milanesi ormai saturi, aprendosi a un tempo, grazie alla rete di comunicazione, ai mercati europei, ai bacini di mano d’opera dei Paesi a nord di Milano e all’utilizzo dell’energia elettrica.

Fra il 1903 e il 1913 Sesto San Giovanni divenne una piccola Manchester, una città delle fabbriche. Qui si trasferirono nei nuovi stabilimenti costruiti in pochi mesi, aziende grandi e medie dei settori siderurgico e meccanico, chimico e alimentare: Breda, Campari, Turrinelli, Ercole Marelli, Trafilerie Spadaccini, Fonderia Balconi, Fonderia Attilio Franco, Pompe Gabbioneta, il nastrificio Kruse, Falck, Laminatoio Nazionale, Pirelli, Alimentari Maggi, Distillerie Italiane e molte altre piccole aziende.

Breda, Pirelli, Falck ed Ercole Marelli si ampliarono rapidamente, raggiungendo rinomanza europea. Secondo il censimento del 1911 gli addetti alle 36 industrie di Sesto San Giovanni erano 6.971, dei quali 6.386 erano operai, di questi 4.784 erano addetti all’industria metalmeccanica; gli abitanti erano 13.667. La crisi produttiva e occupazionale del 1913 si risolse grazie all’acquisizione di commesse pubbliche; un aspetto, questo, che caratterizzerà le vicende produttive dell’industria meccanica sestese fino agli anni Cinquanta.

Negli anni successivi alla prima guerra mondiale, grazie alla produzione bellica, si costituirono quattro gruppi industriali integrati, Falck, Breda, Marelli, Pirelli, ciascuno dei quali era articolato in più stabilimenti. Dalla Ercole Marelli, nel 1919 nacque la Magneti Marelli.

L’area industriale sestese si dilatava investendo il comune di Milano negli ex comuni di Greco e Niguarda e nei comuni di Cinisello Balsamo e Bresso.
Il censimento industriale del 1927 registrava 16.245 addetti all’industria, 362 aziende, 88 delle quali siderurgiche e meccaniche con 12.765 dipendenti, i settori tessile, chimico e alimentare avevano
1.873 addetti distribuiti in 89 unità. Nel 1929 i residenti erano 28.000.
La grande crisi del 1929 interruppe una fase di sviluppo e comportò pesanti licenziamenti. La crisi venne superata grazie alle commesse pubbliche che dal 1933-1934 assunsero un marcato carattere bellico, in preparazione della conquista dell’impero. In quel periodo la popolazione residente era di 35.000 unità.
Con il sopraggiungere della guerra le maestranze furono impegnate in uno sforzo massiccio; nel 1942 le grandi aziende ebbero un notevole incremento di occupati (Breda e Falck quasi raddoppiarono gli addetti). In gran parte erano donne e ragazzi, a bassa qualificazione professionale.
Con i bombardamenti alleati su Milano, le sconfitte militari, le difficoltà negli approvvigionamenti alimentari e la borsa nera, la fabbrica divenne il centro della sopravvivenza quotidiana, con le mense e gli spacci aziendali.
In quel periodo i lavoratori delle fabbriche dell’area industriale di Sesto San Giovanni erano oltre 50.000, la popolazione residente era di 40.914 unità.

Con lo sviluppo dell’industria Sesto San Giovanni fu investita da una forte ondata migratoria e divenne un grande e ribollente crogiolo.
Professionalità, saperi tecnici, culture e concezioni ideologiche e politiche fra loro diverse, ma tutte convergenti sui temi del lavoro, si confrontavano e si arricchivano reciprocamente. Permanevano fra i lavoratori legami professionali e regionali che erano quasi sempre anche politici.
L’articolazione sociale della popolazione residente rimase molto semplice. A parte una piccolissima élite di tecnici di fabbrica e di intellettuali dediti alle professioni liberali e un piccolo strato di commercianti, Sesto San Giovanni sarà fino agli Sessanta una città operaia, la cui vita sociale e politica si svolgerà essenzialmente intorno alla fabbrica.

Dal 1921 iniziò a verificarsi una nuova più contenuta e diversa migrazione: molti lavoratori provenienti dall’Italia centrale e dall’Emilia Romagna costretti a emigrare a causa delle vessazioni da parte delle squadracce fasciste approdarono nelle fabbriche dove vi erano ancora spazi di agibilità politica. Lo squadrista sestese Asvero Gravelli, in seguito sottosegretario alla Cultura, scriverà nella sua autobiografia: "nelle fabbriche di Sesto San Giovanni si davano convegno i fuggiaschi sovversivi di tutt’Italia”. Nel 1927, infatti, il Registro sovversivi dell’Ufficio di Polizia di Sesto San Giovanni comprendeva 800 nomi, nel 1923 erano 3, a fine luglio 1925 erano 335. Nel primo referendum del regime, nel marzo 1929, su 5969 aventi diritto al voto, gli astenuti furono il 10%, i voti contrari e nulli oltre il 15% contro il 5% in provincia di Milano e l’1,5% nazionale.
Vi era un diffuso senso comune antifascista animato dalla forte tradizione socialista e cattolica. Il movimento clandestino organizzava, dalla metà degli anni Trenta, l’infiltrazione nel Sindacato fascista e nei Dopolavoro aziendali, promuovendo vertenze come quella del 1939 per il
riconoscimento della silicosì come malattia professionale dei fonditori, e creando, specie dall’entrata in guerra dell’Italia, una diffusa conflittualità sociale.

Dal 1926, quando cioè aveva dislocato le proprie forze e organizzato la sua attività nelle fabbriche, attraverso i pendolari, il Partito Comunista aveva mantenuto contatti con Milano, l’hinterland e la Brianza.
L’organizzazione clandestina operava con una certa continuità, pur fra enormi difficoltà, in città e nelle principali fabbriche, svolgendo un’intensa attività di propaganda. Durante il ventennio numerosissimi militanti vennero arrestati e condannati al confino o deferiti al Tribunale Speciale. Due furono le principali ondate di arresti: nel 1930 con 17 persone e nel 1939 con 105.
I contatti per la ricostituzione dell’organizzazione ripresero nei primi mesi del 1942. Nel frattempo l’organizzazione, composta dai militanti più anziani, alcuni “già passati per le galere fasciste”, era rimasta in piedi e continuava il suo lavoro clandestino, che sfociava il 23 marzo 1943 alle ore 10 nello sciopero partito semispontaneamente dal Reparto Bulloneria della Falck Concordia e diffusosi nelle fabbriche sestesi e milanesi. L’intervento dei dirigenti fascisti provocò tafferugli e l’arresto di oltre venti operai di Falck, Breda, Ercole Marelli e Pirelli che vennero deferiti al Tribunale Militare di Milano, processati e condannati.


Il cancro della Lombardia

Sesto San Giovanni, che proprio per i grandi scioperi operai, verrà definita Stalingrado d’Italia, si estendeva in realtà al di là dei suoi confini. Le organizzazioni politiche antifasciste clandestine ne tenevano conto fin dagli anni Venti. Lo stesso C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale), nato precocemente rispetto agli altri nell’area milanese, si era denominato significativamente C.L.N. di Sesto San Giovanni e Bicocca. I comandi di Settore delle Brigate Garibaldi e del Corpo Volontari della Libertà avevano adottato la medesima dimensione geo-politica. Già dai primi mesi della Resistenza erano entrati nel Settore di Sesto San Giovanni il Deposito Locomotive FF.SS. (Ferrovie dello Stato) di Greco, una storica officina per la costruzione di locomotive e per le riparazioni ferroviarie con oltre 1000 lavoratori specializzati, vera e propria aristocrazia operaia, e lo stabilimento Magneti Marelli “N” di Crescenzago, entrato in attività nel 1940 con 2000 operai.

In questo blocco d’acciaio al quale “guardano tutti i lavoratori milanesi quando bisogna scendere in lotta”, fra il 25 luglio e l’8 settembre vi furono manifestazioni, scioperi a scacchiera per la pace, per la liberazione dei detenuti politici, per il ristabilimento delle principali libertà soppresse dal fascismo e per il miglioramento di mense e salari. Nelle grandi e medie aziende vennero elette le Commissioni Interne partendo dalle assemblee di reparto. Il Dopolavoro Breda, come il Dopolavoro Caproni a Milano, divenne sede di discussione e di coordinamento delle attività politiche antifasciste semilegali delle fabbriche dell’area milanese.

Dall’1 all’8 marzo 1944 i Comitati segreti di agitazione del triangolo industriale organizzarono lo sciopero generale. Il sostegno di tutti i partiti del C.L.N. fu unanime e il Partito comunista clandestino vi profuse uno straordinario impegno organizzativo. Le fabbriche furono bloccate, tecnici e impiegati scesero in sciopero al fianco degli operai. Le rivendicazioni erano di natura politica e la svolta nella conduzione delle lotte fu evidente.
La repressione nazifascista fu durissima e fu attuata sulla base di precisi elenchi fatti compilare dalle direzioni aziendali, dove figuravano, accanto a noti sovversivi, già confinati o passati per il Tribunale Speciale, lavoratori antifascisti e operai specializzati; 215 lavoratori vennero catturati in fabbrica e a casa, 211 vennero deportati nei Lager nazisti, 163 vi morirono, 2 vennero fucilati al Poligono di Cibeno (Carpi - Modena), 5 morirono dopo il loro rientro per le conseguenze della deportazione.
Vorrei a tal proposito ricordare che la prima deportazione di scioperanti in provincia di Milano avvenne il 7 gennaio alla Franco Tosi di Legnano dove furono catturati 11 operai che morirono tutti a Mauthausen (Austria).

Dopo questa repressione la lotta di massa riprese con grande difficoltà in forme diverse e originali. Si diede vita a un movimento armato che sostituì le preesistenti Squadre di Difesa di Fabbrica con le Squadre di Azione Patriottica (S.A.P.). Esse avevano sempre come base la fabbrica, però con compiti offensivi. I lavoratori pendolari operavano quotidianamente con azioni di sabotaggio e propaganda in fabbrica e collaboravano alla costituzione e all’attività delle S.A.P. nei paesi della provincia.
Favoriti dall’avanzata alleata e dallo sbarco in Normandia si rafforzarono i legami delle grandi fabbriche con le brigate partigiane della montagna lariana e della Valtellina, verso le quali, attraverso canali clandestini, affluivano viveri, finanziamenti, armi catturate ai nazifascisti, combattenti e quadri di comando. Si attivavano patrocini con i distaccamenti delle Brigate partigiane: la Ercole Marelli, la Magneti Marelli e la Breda con la 55^ Brigata Garibaldi D’Assalto Rosselli; la Pirelli con la 52^ Brigata Garibaldi Clerici e la Brigata Valgrande nel Verbano. Centinaia di lavoratori combatterono nelle brigate Garibaldi, Matteotti, G.L. (Giustizia e Libertà), nelle formazioni autonome, sulle montagne lombarde e piemontesi in Ossola e nell’Oltrepò.
Quella di Sesto San Giovanni, grazie alla preponderante presenza di operai e tecnici delle grandi e medie fabbriche (erano il 90% della popolazione residente), fu una resistenza corale, dalle molte
sfaccettature, che faceva riferimento sia ai partiti politici clandestini organizzati in fabbrica e in città, sia al tessuto associativo cattolico.
Il comandante della Brigata Nera Aldo Resega, in una
Relazione riservata del 28 dicembre 1944, scriverà: “altro da far saltare sarebbe il prevosto di Sesto San Giovanni, certo don Mapelli, che tanti danni ha arrecato al governo della Repubblica Sociale Italiana [...]. La parrocchia di Sesto San Giovanni è un formicaio di antifascisti di ribelli di sabotatori”.

Oltre allo sciopero generale del marzo 1944, particolarmente significativi furono lo sciopero generale del 21 settembre 1944 che coinvolse Breda, Pirelli ed Ercole Marelli. A questo proposito segnalo che nei Registri matricola di San Vittore il 22 settembre sono elencati 59 nominativi di persone catturate a Sesto San Giovanni, accanto ai quali vi è una "G" in matita rossa che significava deportazione in Germania. La grafia dei nomi non è molto leggibile e i controlli su altre fonti sino a oggi compiuti non hanno dato esiti significativi. Si tratta certamente di deportati per questi scioperi.
Durante lo sciopero del 23 novembre alla Pirelli Bicocca, dove i nazisti, capeggiati dal capitano delle SS (Schutzstaffeln - Reparti di Difesa) Theo Saevecke, effettuavano 183 arresti, l’intervento della Direzione, peraltro minacciata di deportazione in blocco, valse a far rilasciare 27 operai. 156 lavoratori furono comunque avviati alla deportazione nei lager nazisti.

A proposito di Sesto San Giovanni il comandante della G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblicana) della zona scriveva al Comando provinciale: “[...] è una vera maledizione questo centro industriale totalmente sovversivo. Lì sta veramente il cancro della Lombardia. Questa città rossa dovrebbe
essere completamente distrutta al di fuori delle industrie con il sistema germanico. La popolazione maschile deportata in Germania”.

Il 25 aprile 1945 venne dichiarato lo sciopero generale insurrezionale, le fabbriche vennero occupate dai lavoratori in armi. Entrava in funzione una rete difensiva attentamente organizzata e sufficientemente forte. I partigiani e i patrioti inquadrati nelle diverse brigate furono oltre tremila.
I caduti sui vari fronti della lotta di Liberazione sono stati 325 (in carcere, fucilati, caduti in combattimento e nei Lager nazisti). Il 17 settembre 1972 il gonfalone della Città di Sesto San Giovanni veniva insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare per la lotta di Liberazione.

La deportazione politica nell’area industriale di Sesto San Giovanni

Le persone avviate alla deportazione furono 562, i deportati giunti nei campi di concentramento, sinora accertati, furono 553, di cui 220 caddero e 10 morirono successivamente a causa della deportazione.
La deportazione politica assunse quindi nell’area industriale di Sesto San Giovanni dimensioni di massa per la grande e compatta partecipazione dei lavoratori agli scioperi politici del 1944 e per l’impegno degli operai nelle organizzazioni clandestine della Resistenza e nelle brigate partigiane di città e di montagna che nella fabbrica avevano le proprie basi. Il numero dei lavoratori deportati e dei caduti in deportazione fu altissimo:
- Breda: 199 deportati, 112 caduti,
- Pirelli: 184 deportati, 24 caduti,
- Falck: 96 deportati, 58 caduti,
- Magneti Marelli: 9 deportati,
- Ercole Marelli: 6 deportati, 3 caduti,
- Deposito locomotive FF.SS. di Greco: 6 deportati, 2 caduti,
- Argenteria Broggi: 4 deportati, 3 caduti,
- Piccole e medie aziende: 12 deportati, 5 caduti.

Ad eccezione dell’arresto degli scioperanti della Pirelli Bicocca del 23 novembre 1944, dei rastrellati e delle vittime delle rappresaglie, gli arresti vennero operati dalla G.N.R. con l’appoggio della Legione Autonoma Ettore Muti e dalle diverse polizie repubblichine: SS italiane, Brigate Nere o, secondo alcune testimonianze di deportati e loro familiari, da indistinti fascisti italiani. I tedeschi non comparvero sulla scena, si riservarono il compito di comandare, picchiare e torturare, assumendo il ruolo di arbitri della vita dei catturati.
Su 495 deportati, dei quali sono noti i luoghi e le circostanze dell’arresto, 196 furono prelevati in fabbrica, 177 vennero arrestati in casa di notte, 18 in casa in altre ore, 101 furono catturati in luoghi diversi, in montagna, nei locali pubblici, sui mezzi di trasporto e in rastrellamenti.
Numerosi arrestati, a causa dell’attività politica e per la partecipazione ad azioni partigiane, vennero trattenuti per uno o più giorni nelle celle dei diversi Gruppi rionali fascisti di Milano, in quelle della Questura in piazza San Fedele a Milano, nelle Carceri mandamentali della provincia o in luoghi di detenzione e di tortura come l’ex Macello di Monza.
Il primo campo di destinazione fu tedesco per 417 di loro (il 77% dei deportati) e italiano per 68 internati a Fossoli e successivamente per 59 a Bolzano.
I prigionieri compresi nei trasporti diretti ai campi di transito in Italia e nei Lager in Germania furono 562; 9 riuscirono a fuggire, in circostanze diverse, dai trasporti diretti in Germania.
Complessivamente i deportati immatricolati furono 553: 23 rimasero nel campo di Bolzano, 2 furono rilasciati da quel campo, 1 fu rilasciato dalla caserma Umberto I di Bergamo, 1 riuscì a fuggire dal campo di Bolzano. Le donne deportate furono 13 (2,34%) e tutte sopravvissero.

La deportazione politica di Sesto San Giovanni rimanda fedelmente l’immagine di una realtà costituita da lavoratori immigrati e pendolari. Solo il 6,2% era nato a Sesto San Giovanni, il 52,6% era nato in provincia di Milano e il 19% circa nelle altre province lombarde, il 27% circa era nato nel resto d’Italia, poco meno dell’1,5% all’estero.
Solo il 28% dei 448 deportati dei quali è noto il luogo di residenza abitava a Sesto San Giovanni. Il 20,6% risiedeva nei comuni limitrofi, di questi il 40,8% (38) risiedeva a Cinisello Balsamo, il 59,1% (55) a Monza. Il 31,5% del totale risiedeva a Milano, il 17% negli altri comuni della provincia, il 2,5% nelle altre province lombarde.
I deportati morti furono 220, tutti uomini. 215 morirono nei Lager o negli ospedali alleati, 5 furono fucilati nel poligono di Cibeno, nei pressi del campo di Fossoli, il 12 luglio 1944. Altri 10 morirono dopo il loro rientro in Italia tra il 1945 e il 1950 a causa della deportazione. Se si considerano i 27 rimasti a Bolzano, rilasciati o fuggiti dai campi in Italia, il tasso di mortalità è del 37,9 % rispetto a una media stimata del 90%. Dei 206 deportati caduti nei Lager dei quali è noto il luogo di morte, 173, cioè l’84%, perirono a Mauthausen e nei suoi sottocampi (93 solo a Gusen), gli altri 33 morirono in altri Lager, 8 fra questi caddero a Kahla, 6 a Flossenburg, 4 a Buchenwald, 3 a Dachau.
Fra l’ottobre 1944 e l’aprile 1945, caddero 167 deportati, il 78,4% dei 215 deportati morti nei Lager tedeschi. La mortalità cresceva quanto più l’età era avanzata. La quasi totalità dei deportati era in età lavorativa. Solo 18, il 3%, aveva fra 54 e 65 anni, uno solo di questi sopravvisse. Al momento della deportazione il 14% dei 535 deportati, dei quali è nota la data di nascita, aveva fra 14 e 23 anni (il 23% morì); il 27,6% aveva fra 24 e 33 anni (il 31,5% cadde); il 36% si collocava fra 34 e 43 anni (il 46% morì), il 14,4% era nella fascia di età fra i 44 e i 53 (il 53% non sopravvisse).
Il numero relativamente alto di sopravvissuti era dovuto, come si è visto, all’età e quindi alla resistenza fisica degli internati, al periodo più o meno breve di permanenza e al tipo di Lager nel quale si era imprigionati: di sterminio, di lavoro, per militari, di punizione. A questo proposito la causa e le circostanze della cattura non erano sempre decisive: la destinazione a un tipo di campo era spesso connessa alle necessità della produzione bellica. Un altro fattore decisivo di sopravvivenza era il mestiere e la specializzazione.
Avevano un mestiere di fabbrica 447 deportati su un totale di 515 casi noti, 418 erano operai, 11 apprendisti, 10 tecnici e 8 ingegneri. I manovali erano 31 e gli impiegati 18. La destinazione a un sottocampo nel quale vi era un’azienda, una razione alimentare anche di pochi grammi superiore a quella del Lager, il lavoro al coperto, senza maltrattamenti continui, risultavano decisivi. Ad esempio i 15 deportati in seguito all’attentato del 10 febbraio 1944 alla sede del P.F.R. (Partito Fascista Repubblicano) di Sesto San Giovanni, dopo essere stati internati a Fossoli, furono deportati a Mauthausen, poi nel campo di lavoro di Wels dove si costruivano aerei. Sopravvissero tutti.
Un caso per molti versi emblematico riguarda i lavoratori della Pirelli Bicocca deportati per lo sciopero del 23 novembre 1944: su 153 deportati, 128 finirono in diversi campi dove si costruivano aerei e razzi e si fabbricavano armi e benzina sintetica: solo 6 morirono.
Altri 28 furono internati nel campo di Kahla, ritenuto fino a pochi anni or sono un campo di lavoro come gli altri e dove caddero 7 deportati. Una percentuale di caduti molto alta rispetto al tipo d Lager.
I deportati di cui si conosce la causa dell’arresto sono 509 su 553. Di loro 365, il 72%, furono deportati a causa degli scioperi (marzo del 1944 e Pirelli Bicocca del 23 novembre 1944); 51, cioè il 10%, vennero deportati per motivi politici, per la diffusione di giornali clandestini, la raccolta di aiuti per i prigionieri e per i partigiani; 52 furono deportati per azioni partigiane, in particolare per gli attacchi ai nazifascisti operati dai G.A.P. (Gruppi di Azione Patriottica) e gli scontri a fuoco con le truppe nazifasciste, in città e in montagna, durante i rastrellamenti, per le attività di sabotaggio e di propaganda delle S.A.P.
La rappresaglia nazifascista colpì 12 persone, furono deportati 6 lavoratori per l’attentato gappista alle locomotive nel Deposito FF.SS. di Greco; in seguito all’esecuzione del federale fascista Aldo Resega, vennero deportate le mogli di 3 gappisti. Altre 10 persone vennero deportate per i rastrellamenti e 11 erano soldati catturati durante le operazioni dei militari nazisti contro la resistenza greca, francese e jugoslava. Fra loro vi erano due militari che avevano partecipato alla rivolta nel Carcere Militare di Gaeta ed erano stati i primi ad essere deportati a Dachau il 20 settembre 1943; uno di loro era stato incarcerato per attività antifascista. Per altre cause furono deportate 8 persone: 2 per furto di carbone, 2 per evasione dell’obbligo al servizio del lavoro in Germania.
Tra i deportati vi erano antifascisti di vecchia data, 31 avevano precedenti politici antifascisti: deferiti e condannati dal Tribunale Speciale, schedati dal Casellario Politico Centrale, già confinati o sorvegliati, 4 arrestati per lo sciopero del marzo 1943, 3 membri delle Commissioni Interne del periodo badogliano.

Le deportazioni di massa: marzo 1944 - Sciopero generale!

La repressione dello sciopero generale del marzo del 1944 nell’area industriale di Sesto San Giovanni fu particolarmente feroce. Arrestare e deportare in Germania gli operai organizzatori degli scioperi, terrorizzare i lavoratori e la popolazione per impedire ogni forma di resistenza e per ristabilire la disciplina in fabbrica, catturare mano d’opera per le aziende belliche tedesche, erano gli obiettivi di queste azioni.
Incrociando i dati compresi nelle liste degli Streikertransport (trasporto scioperanti) e i nominativi elencati nei registri matricola del Carcere di San Vittore, gli arresti in provincia di Milano (concentrati soprattutto nei primi otto giorni di marzo, il 12, il 14 e il 28 marzo e, secondo alcune
testimonianze, anche in altri giorni del mese e ai primi di aprile) sarebbero stati circa 400.

Le deportazioni degli scioperanti nell’Italia centro-settentrionale, secondo una stima dello studioso tedesco Lutz Klinkhammer, furono in totale circa 1200. Fra gli arrestati in provincia di Milano vi erano 41 donne, 10 erano operaie della Breda e in numero più rilevante operaie della Saffa di Magenta. Le fabbriche più colpite oltre alle grandi aziende sestesi furono la Caproni, con 47 deportati, che probabilmente figuravano in una lista nera, 18 all’A.T.M., 14 all’Alfa Romeo, 13 alla Innocenti.
Nella prima settimana di sciopero, secondo i notiziari giornalieri della Guardia Nazionale Repubblicana, furono arrestati 37 lavoratori. Successivamente, il 12 marzo, ne arrestarono altri 40, il 14 marzo 63, il 28 marzo 52, più altri 34 negli altri giorni del mese. Secondo testimonianze orali gli arresti proseguirono nei primi giorni di aprile.
La Sicherheitsdienst (SD, Servizio di Sicurezza) e i repubblichini dell’Ufficio Politico Investigativo con pressioni e minacce ordinarono alle direzioni di alcune grandi aziende, Breda e Falck tra queste, di compilare elenchi di operai da arrestare e da inviare in campo di concentramento in Germania. I direttori degli stabilimenti chiesero a loro volta ai capi reparto di redigere le liste.
Le aziende più colpite furono la Breda con 125 arrestati e 121 deportati e la Falck con 73 deportati.
Alla V Sezione Aeronautica Breda, lo stabilimento più rivoluzionario, vennero deportati 46 lavoratori, fra loro vi erano 6 ingegneri e 7 giovani donne; alla I Sezione i deportati furono 23, tra cui una giovane donna; anche alla II Sezione Ferroviaria furono 23; alla IV Sezione Siderurgica 19 deportati; alla III Sezione Fucine 9; alla Sezione Impianti 3. Si è potuto rilevare che su un campione di 30 schede di lavoratori deportati, custodite dall’archivio storico aziendale Breda, i dati relativi alla deportazione sono deformati ad arte: si va da “licenziato per trasferimento in Germania”, “ingaggiato a lavorare in Germania”, “precettato per il servizio del lavoro in Germania” a “internato in Germania”, tutti con date false.
Della Falck Unione, stabilimento di punta, dove l’organizzazione clandestina comunista era da sempre la più attiva, vennero arrestati 40 operai, allo stabilimento Vittoria 14, al Concordia 11, al Vulcano 1, di 7 si sa solo che erano operai della Falck.
Altre aziende furono colpite in misura inferiore. Vennero arrestati 7 lavoratori della Pirelli Bicocca, 3 della Magneti Marelli, 3 delle Argenterie Broggi, 10 complessivamente nelle medie aziende. Non si è a conoscenza se elenchi analoghi siano stati compilati alla Pirelli Bicocca, per dimensioni la seconda industria dell’area. L’atteggiamento pesantemente critico dei nazisti nei confronti della proprietà e della direzione aziendale farebbe propendere per il no. Il dottor Rothman del RUK aveva dichiarato al direttore centrale che: “la Pirelli era l’unica ditta che non avesse dimostrato spirito di collaborazione e che avesse mancato agli impegni”.

Diversi furono i casi della Magneti e della Ercole Marelli. Alla Magneti vennero deportati 3 noti militanti comunisti organizzatori dello sciopero. Alla Ercole Marelli, che rimase un po’ defilata in quello sciopero, in tutto il periodo dell’occupazione tedesca furono deportati in circostanze diverse
6 operai. Un numero assai inferiore a quello delle altre aziende dell’area. Secondo la tradizione orale, questo sarebbe dipeso dalla presenza nella Direzione aziendale dell’ingegner Viailer o Fiailer, tedesco o altoatesino, secondo alcuni antinazista, che avrebbe protetto i lavoratori da arresti e deportazioni; sembra che la sua ala protettrice si estendesse alla Magneti Marelli.

Gli elenchi di Breda e Falck, le liste nere, vennero compilati con estrema precisione: nomi, indirizzi, orari di lavoro e relative variazioni.
Nelle liste erano inseriti 16 lavoratori con precedenti politici antifascisti significativi, schedati dalla polizia. Ex condannati dal Tribunale Speciale, ex confinati, gli arrestati per gli scioperi del marzo 1943, gli eletti nelle Commissioni Interne nei 45 giorni, un centinaio erano antifascisti dichiarati, alcuni dei quali militavano nel Partito Comunista clandestino, altri nel Partito Socialista. Nelle liste erano compresi operai indisciplinati che avevano avuto screzi con i capi reparto, giovani reduci da gravi malattie o che avevano partecipato con entusiasmo alle manifestazioni per la caduta del fascismo o allo sciopero. Gli elenchi erano completati da nominativi di operai specializzati utili alla produzione bellica tedesca.
Quasi tutti gli arresti avvennero di notte nelle case e furono effettuati da poliziotti, carabinieri e militi repubblichini. A volte utilizzando il tranquillizzante pretesto di accertamenti e la promessa del rilascio l’indomani mattina.
Gli arresti avvennero in silenzio, per non suscitare allarme fra i vicini. I militi erano numerosi, entravano nelle case, perquisivano, altri si fermavano lungo le scale altri ancora in strada vicino ai mezzi di trasporto che potevano contenere molte persone ed erano diversi a seconda dei paesi. Nella periferia Nord a Milano e a Sesto San Giovanni venne utilizzato un pullman, e un’autolettiga a Cinisello Balsamo.
Com’era previsto dai nazisti, l’impatto sulla popolazione di interi Comuni fu terrorizzante.
Furono deportati anche malati, mutilati e invalidi, padri e figli, fratelli e padri al posto dei figli. Gli operai furono arrestati ovunque si trovassero: come avvenne a Vittoria Gargantini, arrestata a casa di un’amica che la ospitava da qualche giorno.
Arresti, pestaggi e torture durante e dopo gli scioperi avvennero anche in fabbrica. Il caso più eclatante è quello della V Sezione Breda Aeronautica, dove vi furono incursioni di repubblichini dell’Ufficio Politico Investigativo che picchiarono e torturarono 6 ingegneri, massimi dirigenti della Sezione. Furono arrestati il capo del personale, il capo delle guardie, il capo dei pompieri, il capo degli infermieri, tutti antifascisti. Vennero accusati di collusione con gli scioperanti, con i partigiani che operavano in fabbrica e con i gappisti autori dell’attentato alla sede del Partito Fascista Repubblicano di Sesto San Giovanni. I tedeschi volevano i loro nomi, ma nessuno li conosceva.
Gli arrestati sparirono nel nulla. I familiari angosciati andarono da un Comando all’altro alla loro ricerca, non di rado sbeffeggiati dai militi di Salò, cercando di far intervenire conoscenti o autorità civili e religiose per avere notizie e ottenere il loro rilascio.
Tutti vennero imprigionati a San Vittore, dove passarono alla Sezione tedesca, e molti subirono percosse e torture. Qui si compilavano gli Streikertransport (trasporto scioperanti), sette quelli noti, che coinvolsero complessivamente 359 deportati milanesi, la metà dei quali erano operai sestesi. La destinazione successiva era la Caserma Umberto I di Bergamo e qui, sotto la stretta sorveglianza dei nazisti, venivano ammassati in attesa di essere avviati nei vagoni piombati a Mauthausen, via Tarvisio. Altri deportati, fra loro molti scioperanti, vennero inviati in Germania nei vagoni piombati, partiti il 4 marzo 1944 dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano.
Dei 215 lavoratori catturati, 4 vennero rilasciati. Alcuni furono dapprima internati nel campo di Fossoli; 2 scioperanti, entrambi della Breda, furono fucilati il 12 luglio 1944 con altri 65 deportati nel poligono di Cibeno (Fossoli). 209 lavoratori furono inviati nel Lager di Mauthausen e nei suoi sottocampi, 163 caddero, 5 morirono nei cinque anni successivi al loro rientro in Italia.

Sottolineo a questo punto un aspetto richiamato da Bruno Maida e da Brunello Mantelli nelle loro relazioni: i bombardamenti a tappeto alleati provocarono lo spostamento in galleria, delle fabbriche dei caccia (Henkel, Messerschmitt) e di razzi nelle gallerie e nelle officine sotterranee dei
sottocampi e dei Lager. Vi fu probabilmente un collegamento diretto fra questo e la deportazione degli scioperanti della Breda Aeronautica e della Aeroplani Caproni. Complessivamente si tratta di 93 deportati fra ingegneri, tecnici e operai specializzati impegnati nella Resistenza.

Le deportazioni di massa alla Pirelli Bicocca 23 novembre 1944: sciopero! La direzione non collabora!

La repressione dello sciopero politico e la razzia di mano d’opera a bassissimo costo per l’industria tedesca sono alla base delle deportazioni del 23 novembre 1944 degli operai della Pirelli Bicocca. In solidarietà con Caproni, Falck e Magneti Marelli, colpite da una serrata (conseguenza di uno sciopero generale parzialmente fallito), vi fu la Pirelli Bicocca, unica azienda dell’area industriale che, seguendo le indicazioni del Comitato sindacale di Milano e provincia, scese in sciopero compatta alle 10. Le SS arrivarono in tarda mattinata e iniziarono una caccia all’uomo, fra lo scompiglio generale che impedì ogni reazione.

Catturarono 183 lavoratori (tra loro vi erano due ingegneri e un
impiegato), addossandoli ai muri e malmenandoli. Vennero tutti caricati su camion e portati a San Vittore. La mattina successiva Alberto Pirelli avanzò formalmente la richiesta che tutti i dipendenti arrestati fossero rilasciati: 27 furono rilasciati. A cinque giorni dall’arresto 156 lavoratori vennero deportati in Germania, 3 riuscirono a fuggire dai vagoni piombati, 153 furono immatricolati in diversi campi di lavoro, 12 vi morirono, uno morì dopo il rimpatrio in conseguenza della deportazione.

Quella dei lavoratori della Pirelli Bicocca, al di là dei Lager di destinazione, è stata la deportazione di massa più rilevante operata dai nazifascisti in una singola azienda, seconda solo a quella di 1500 lavoratori (numero tutt’oggi incerto), effettuata il 16 giugno 1944 in 4 fabbriche genovesi: San Giorgio, Siac, Piaggio e Cantieri navali.

Quarantasette su cinquantuno deportati di Cinisello Balsamo erano lavoratori delle fabbriche dell’area industriale di Sesto San Giovanni. Di questi, la maggior parte furono arrestati a seguito degli scioperi nelle fabbriche:
- diciassette non fecero ritorno dal Lager: Barichella Attilio, Beretta Aldo, Berna Cesare, Berna Giuseppe, Galbiati Giuseppe, Ghezzi Edoardo, Guazzoni Alfredo, Limonta Riviero detto Oliviero, Merati Ettore, Molteni Giuseppe, Oggioni Anselmo, Paravisi Giovanni, Ragazzo Giovanni, Remigi Rodolfo, Vergani Giovanni, Villa Severino, Zaffoni Marcello;
- due morirono poco tempo dopo, a seguito degli stenti e delle violenze subite: Cappelletti Ermanno e Limonta Carlo;
- per un totale di diciannove deportati deceduti;
- ventotto furono i sopravvissuti: Agliardi Raffaele, Arienti Natale, Arnaboldi Luigi, Belloni Angelica, Brancaleone Venturino, Bruschi Giuseppe, Cantiero Sigifredo, Cazzaniga Alfredo, Colombo Pietro, Corneo Maria, Crovi Rosa, Fugazza Maria, Fumagalli Fedele, Galbiati Enrico, Galbusera Leandro, Gerosa Ines, Ghezzi Dante (deceduto nel 1951 per le malattie contratte nel Lager), Longoni Giuseppe, Magni Carlo, Marafante Giuseppe, Recalcati Eugenio, Riva Agostino, Sala Natale, Sesti Carlo, Tesser Angelo, Vergani Tarcisio, Visioli Addone e Zanetti Luigi.

Vai alla scheda: "Seconda guerra mondiale" - i monumenti alle vittime delle guerre.

Vai alla scheda: "I deportati".

Vai alla scheda: "Schede sui Lager".

Vai alla scheda: "Il Lager di Mauthausen".

Vai alla scheda: "Il Lager di Khala".

Vai alla scheda: "La situazione alimentare a Milano e a Cinisello Balsamo durante la seconda guerra mondiale".

Volantino che chiama i lavoratori ad aderire allo sciopero del marzo 1944


GALLERIA FOTOGRAFICA

Fotografia aerea dell’area industriale di Sesto San Giovanni

Società Italiana Ernesto Breda per Costruzioni Meccaniche

Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck

Lavoratori in sciopero

Lavoratori in sciopero

Durante gli scioperi nelle fabbriche sestesi si intima ai lavoratori di riprendere il lavoro

Vagoni dove vengono stipati i deportati

Milano, Stazione Centrale, binario 21

1945, Sesto San Giovanni, Breda, operai riuniti per difendere il materiale della fabbrica dai nazisti durante la Resistenza

Anni Quaranta, nel dopoguerra i cittadini di Cinisello Balsamo organizzano un carro della solidarietà con gli operai della Ercole Marelli in sciopero

Giuseppe Valota, presidente dell’A.N.E.D. di Sesto San Giovanni

Assemblea di fabbrica, elaborato di Gianni Travaini presentato al concorso: Progetto per il murales - Il cammino della Libertà, organizzato da A.N.P.I. sezione Ovest Ticino Vittorio Colombo

Non dimenticare, elaborato di Anna Maria Mattachini presentato al concorso: Progetto per il murales - Il cammino della Libertà, organizzato da A.N.P.I. sezione Ovest Ticino Vittorio Colombo