DON CARLO GNOCCHI PRIMO DONATORE DI ORGANI

L’ultima volontà di don Carlo Gnocchi fu la donazione delle cornee. Lo aveva detto già un anno prima di morire: "Se dovessi morire, voglio che cerchiate di dare i miei occhi a due dei miei ragazzi. Mi restano solo gli occhi, anche questi sono per i miei mutilatini".

Ricorda don Giovanni Barbareschi, amico fedele ed esecutore testamentario di don Gnocchi, che tre o quattro giorni prima di morire don Carlo gli chiese: "Sei pronto a rischiare la prigione per me? Io voglio donare le cornee. Se ti senti, vai a cercare un oculista che si tenga a disposizione. Se ti va male sappi che andrai in galera per me".

Nei mesi precedenti l’evoluzione finale della malattia aveva incontrato nel Centro di Inverigo un ragazzo abruzzese cieco. Don Carlo lo aveva subito notato e aveva avviato le pratiche per trasferirlo e farlo operare in Svizzera, visto che in Italia i trapianti di cornea non erano ancora possibili.

Sfidando la legge, il doppio intervento di trapianto con le cornee di don Carlo Gnocchi fu eseguito dal professor Cesare Galeazzi, direttore del Pio Ospedale Oftalmico di Milano (oggi Fatebenefratelli), che ricorda nel suo diario:
"Improvvisamente, domenica 26 febbraio alle 2 del pomeriggio suona il telefono. Era una suora della clinica Columbus che mi diceva di andare subito perchè don Carlo aveva chiesto di me. Quando lo vidi giaceva nel letto, sotto la tenda a ossigeno, il viso esangue, le belle mani stanche e bianche. Mi disse: «Cesare, ti chiedo un grande favore, non negarmelo. Fra poche ore io non ci sarò più, prendi i miei occhi e ridona la vista a uno dei miei ragazzi, ne sarei tanto felice. Parti subito per Roma, là nella mia casa c’è da pochi giorni un bel ragazzo biondo e poi forse anche un altro, mi hanno detto che un trapianto di cornee potrebbe farli rivedere, avrei già dovuto parlartene, parti subito, promettimelo, io ti ringrazio. Addio...». Non dimenticherò mai quegli attimi di stravolgente commozione; non ricordo nemmeno che cosa dissi, so che piangevo e so che promisi. Ricordo che lo baciai in fronte. Uscii frastornato, pieno di paura per l’incombente gravoso impegno così solennemente assunto. Non sapevo nulla di questo ragazzo, ero spaventato e commosso.
Partii subito per Roma angosciato dai dubbi. Se l’intervento non mi fosse riuscito? Avrei fatto in tempo a rientrare da Roma con il ragazzo?
Don Carlo palesemente agonizzava. La mattina dopo, il 27 febbraio, di buon ora, sono alla casa dell’Opera di Don Carlo, chiedo del ragazzo, stentano a individuarlo, poi lo riconoscono in Silvio Colagrande di 12 anni. Me lo portano in osservazione; sono visibili gli esiti di un’ustione gravissima, cornee opache in misura sub-totale, certo un caso molto difficile, ma ancora in limiti di operabilità. Mi sento già più tranquillo. Dispongo per l’immediata partenza per Milano del giovane e richiamo l’ospedale affinché tutto sia pronto per operare in qualsiasi momento. Preannuncio il mio rientro, con la notizia che ormai è già di pubblico dominio. Del resto fin dal mio arrivo a Roma ero stato aggredito da giornalisti e fotografi.
Poco prima di ripartire il 28 febbraio mi giunge la triste, ma purtroppo attesa, notizia: don Carlo è spirato. Eterno, ansioso viaggio di ritorno. Quasi sgomento pensavo alla prova che mi aspettava: come un principiante andavo ripetendomi i tempi dell’intervento. Ma se il colpo di trapano per il prelievo del disco da innestare per l’emozione non mi fosse riuscito? E tutti quei vasi sulla cornea? Ci sarà emorragia? Il lembo resterà trasparente? Pensavo al mio aiuto, il dottor Mario Celotti, che in quel momento stava prelevando i bulbi dal volto spento di don Carlo e ringraziavo Dio per le circostanze che mi avevano risparmiato il compito. Ero preoccupato per l’esito dell’intervento. Poi, a tratti mi rasserenavo e dicevo: «don Carlo mi aiuterà».
Successivamente venni a sapere delle difficoltà frapposte a Celotti dalla polizia a causa della legge italiana di allora che non permetteva il prelievo di cornee da un defunto. All’uscita dalla clinica la sua auto fu per un tratto seguita da quella della polizia che poi fece volutamente finta di perderla.
La mattina dopo, il 29 febbraio, nel momento di eseguire l’intervento, mi sentivo stranamente tranquillo, all’angoscia era succeduta una sorta di fredda determinazione. A un impegno assunto con un «santo» agonizzante non vi erano alternative ed era in me, lo confesso, anche una punta di orgoglio.
Per il secondo trapianto era pronta una giovane ragazza, Amabile Battistello di 17 anni, l’unica resasi disponibile il giorno prima. Arrivo in ospedale, vedo i giornalisti fermi all’ingresso e li evito entrando dall’ambulatorio. La camera operatoria è pronta, vi è un silenzio particolare, è una giornata diversa. L’induzione, l’anestesia. «Può cominciare professore...», la voce amica di Laura, la mia anestesista. Sono sereno, i tempi preliminari evolvono senza complicazioni e arriviamo al momento cruciale. Un attimo, ma solo un attimo di commozione, ho nelle mani, e ancora fisso, l’occhio azzurro di don Carlo che non c’è più. Ma mi aiuta, la mano non trema, il giro di trapano è sicuro. L’insediamento della cornea risulta facile, la pupilla è centrata, il cristallino perfettamente trasparente, il ragazzo vedrà.
Anche il secondo trapianto non subì complicazioni. Il lembo innestato venne protetto da un dischetto di pelle d’uovo sterilmente preparato e tenuto in sito da due anse di filo incrociato. Il decorso post-operatorio fu ottimo per entrambi i pazienti, avvolto solo da un clima di grande clamore per quanto era avvenuto."

Ricorda Silvio Colagrande, operato all’occhio sinistro, rimasto legato a don Gnocchi e alla Fondazione, oggi direttore dell’Istituto di Inverigo:
"Avevo perso quasi completamente la vista all’età di sette anni; uno zampillo di calce viva mi aveva colpito agli occhi mentre stavo giocando, causando un’ustione gravissima con la compromissione della cornea. Poi al centro Pro Juventute che don Carlo aveva aperto a Roma, avevo imparato il linguaggio Braille, nell’attesa di un trapianto possibile soltanto all’estero. Il 27 febbraio 1956, vigilia del giorno della morte di don Gnocchi, tutti i suoi alunni non vedenti furono chiamati per una visita oculistica. Quando entrai nell’ambulatorio riconobbi la voce del professor Galeazzi. Dopo la visita mi fu semplicemente detto che occorreva andare a Milano, destinazione l’Istituto Oftalmico. Non mi dissero altro. Mi resi conto di quanto mi era accaduto soltanto il giorno dopo, al risveglio dall’anestesia; ricordo che ero completamente bendato e un peso mi circondava la testa (era tenuta ferma da un cuscino di sabbia legato dietro al collo). Sentivo la voce dell’infermiera che mi raccomandava di restare immobile. Rimasi così per cinque giorni e cinque notti, vegliato dalle due infermiere Renata e Gina, perché anche nel sonno non facessi bruschi movimenti. Venne in ospedale a trovarmi anche l’allora arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, che poi divenne Papa; la sua voce mi è sempre rimasta impressa. L’occhio operato riacquistò in breve sei decimi di diottrie ma rimasi in ospedale alcuni mesi prima di essere dimesso e tornare a Inverigo per riprendere gli studi elementari. Questa volta però leggendo e scrivendo come tutti gli altri alunni."

Ricorda Amabile Battistello, operata all’occhio destro:
"Da bambina, accompagnata da uno zio, partivo dal mio paese, Cusano Milanino, per bussare alla porta del professor Galeazzi affinché facesse qualcosa per ridarmi la vista. Tutte le volte che tornavo là, lui ripeteva sempre la medesima frase, quasi fosse il ritornello di una triste filastrocca diventata col tempo anche noiosa: «Per curare le lesioni corneali come la tua, serve un trapianto, ma i tempi non sono maturi e la scienza è ancora indietro, abbi pazienza e fidati di me, un giorno lo faremo e tu guarirai».
Poi il trapianto. Il giorno in cui mi tolse le bende dagli occhi e mi fece guardare verso un luogo lontano e io individuai una finestra aperta, il professor Galeazzi pianse. Poi accese un grosso registratore, azionò un pulsante e la voce debole e sofferente, ma serena, del mio benefattore, incisa su un nastro dallo stesso professor Galeazzi disse le frasi che non scorderò mai: «Cari amis, ve raccomandi la mia baracca... ve la lasi, pusse d’inscì ho minga podù fa. E tu professor Galeazzi, devi promettermi che alla mia morte prenderai questi occhi e li utilizzerai affinché due ragazzi possano vedere, è tutto quello che mi resta da dare ancora!».
Era la sua voce, che per me non aveva ancora un volto. Volli ascoltarla tante volte fino ad imprimermi nella mente quel timbro sofferente ma deciso. Il professor Galeazzi, nel risentirla insieme a me, più volte si asciugò le lacrime che gli scendevano sulle gote. Fu così, senza che ci incontrassimo, senza che ci conoscessimo, che da quel giorno don Gnocchi camminò insieme a me. Il professor Galeazzi gli disse il mio nome, me lo confermò lui stesso, e a me sembrò già un grande onore che un uomo così santo conoscesse quel poco di me."

Dunque don Gnocchi aveva fatto dono delle sue cornee a due giovani ciechi, Silvio Colagrande e Amabile Battistello. La donazione, allora non ancora normata, farà scalpore nell’opinione pubblica e accelererà il dibattito in materia, con la promulgazione a breve del D.L. n. 235 del 3 aprile 1957.

Anche la riflessione etica e teologica, che ancora non aveva articolato una piattaforma di indicazioni sulla materia della donazione degli organi, subì un’accelerazione decisiva. Lo si rileva dagli interventi di Papa Pio XII. L’elogio all’atto di don Carlo che fece la domenica successiva all’Angelus e il discorso pronunciato ai clinici oculisti e ai medici legali dell’Associazione dei Donatori di Cornea e dell’Unione Italiana Ciechi il 14 maggio 1956: "Il cadavere non è più, nel senso proprio della parola, un soggetto di diritto, perchè è privo della personalità che sola può essere soggetto di diritto ... In generale non dovrebbe essere permesso ai medici di intraprendere asportazioni su un cadavere senza l’accordo di coloro che ne sono depositari. Consentire espressamente o tacitamente a seri interventi contro l’integrità del cadavere non offende la pietà dovuta al defunto, quando per questo esistono valide ragioni”.

Vai alla scheda: "Don Carlo Gnocchi" - lapide commemorativa.



GALLERIA FOTOGRAFICA

Primo piano degli occhi di don Gnocchi che hanno ridato la vista a due giovani non vedenti

Beato don Carlo Gnocchi

Don Giovanni Barbareschi

Il professor Cesare Galeazzi

Silvio Colagrande dopo il trapianto

Amabile Battistello dopo il trapianto

Amabile Battistello e Silvio Colagrande