Irme Kertész, nato a Budapest nel novembre del 1929, è stato deportato nel 1944 ad Auschwitz e liberato a Buchenwald nel 1945. Tornato in Ungheria, dopo aver conseguito la maturità, inizia a lavorare come giornalista per un quotidiano di Budapest. Quando nel 1951 il giornale diventa organo del partito comunista, Kertész viene licenziato. Dopo due anni di servizio militare, nel 1953 intraprende la carriera di traduttore. Traduce, infatti, Canetti, Freud, Hofmannsthal, Nietzsche, Joseph Roth, Schnitzler, Wittgenstein. Si cimenta anche nella stesura di opere teatrali. Nel 1960 comincia a lavorare a Essere senza destino, il romanzo che lo ha imposto all’attenzione del pubblico e della critica nazionale e internazionale.
Aveva quindici anni quando venne deportato ad Auschwitz, nel 1944, e poi a Buchenwald. E proprio quella «fragile esperienza dell’individuo contro la barbarica arbitrarietà della storia», che Kertész descrive nel suo romanzo più famoso, Essere senza destino, fu la motivazione che convinse l’Accademia di Stoccolma a conferirgli il premio più prestigioso. Il suo esordio, primo volume di una trilogia sull’Olocausto che comprende anche Fiasco e Kaddish per il bambino non nato (tutti Feltrinelli) cambiò per sempre il modo di vedere l’infinita tragedia. La trascinò fuori dalle sabbie mobili dell’individualità. «L’Olocausto è ovunque», diceva Kertész. E scrisse così la storia di un adolescente. Un ragazzo con una direzione esistenziale precisa, prelevato alla fermata dell’autobus e privato del suo destino. Un ragazzo che da quel momento poteva essere, può essere, potrà purtroppo per sempre essere, uno di noi, pescato a caso dagli unghiati uncini del Male fuori dalla rete umana e portato nella non-umanità. La vita di Kertész, di famiglia ebraica, cominciò da una fine: la deportazione. (Stefania Vitulli, 1 aprile 2016)
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