LEGITTIMAZIONE DELLA GRANDE GUERRA E CULTO DEI CADUTI

Durante la prima guerra mondiale e nel primo dopoguerra, nei centri abitati in Italia e in Europa furono costruiti numerosi ricordi monumentali dedicati ai caduti della guerra.

Fin da subito i morti in guerra furono al centro di un sistematico processo di elaborazione del lutto messo in atto da parte dei loro cari al fine di dare un significato e di rendere più tollerabile la perdita. La stragrande maggioranza delle iniziative di commemorazione, compresi quindi i monumenti, partirono dal basso, dalla cerchia degli intimi del caduto: parenti, colleghi, amici, spesso semplici conoscenti.

La maggioranza della popolazione aveva guardato al conflitto con una certa estraneità, se non con aperta ostilità. Le masse operaie e contadine riuscirono in parte a elaborare una propria memoria del conflitto seguendo vie del tutto particolari, internazionaliste e antipatriottiche; più spesso erano giunti a un’accettazione del conflitto, a distanza di anni, il più delle volte con la mediazione della religione.
C’era però un’altra parte della popolazione, i non pochi fedeli all’ideologia nazional-patriottica, per i quali la fedeltà alla Nazione era un valore per certi versi assoluto, che si trovò di fronte a un fenomeno inaspettato, a cui non era preparata. Nessuno, all’alba dell’entrata in guerra, era preparato ai lutti che il conflitto avrebbe portato con sé; le sole guerre combattute dagli italiani, come dalle altre Nazioni europee, nei cent’anni precedenti erano stati conflitti brevi e tutto sommato poco sanguinosi. Fin dalle prime settimane invece questa guerra si presentò come un massacro di entità inaspettata che coinvolgeva una fascia di popolazione ben delimitata, una generazione di uomini giovani, di figli ancor prima che di padri e di mariti che, morendo, lasciavano i più vecchi: i padri e le madri, per i quali l’elaborazione del lutto era certo più difficile.
I patriottici si trovarono dunque a dover affrontare il lutto con il rischio di veder vacillare la fedeltà all’ideale nazionale cui erano legati.

Le pratiche commemorative furono pertanto dei luoghi del mantenimento del senso nazionale della guerra con le quali si edulcorava e si valorizzava la morte in battaglia, ribadendone il senso e l’importanza per i destini della Nazione e, al tempo stesso, tentando di saldare in qualche modo la componente del debito che i più vecchi, i sopravvissuti, sentivano di aver contratto nei confronti dei più giovani che erano morti per una causa ritenuta comune.
Queste pratiche presero pertanto anche una connotazione politica, più o meno accentuata a seconda dei casi, divenendo dei veri e propri atti di cittadinanza, in quanto la partecipazione ad esse implicava l’accettazione di una precisa scala valoriale, imperniata attorno alla Nazione come fattore legittimante.
Questa ossessiva necessità di non dimenticare portava in una qualche misura all’accettazione della guerra e della morte in guerra, restituita con contorni tollerabili e per certi aspetti idealizzati, ma ostacolava al tempo stesso il superamento del lutto da parte dei congiunti del caduto.
Tale rielaborazione si rivelerà non priva di messaggi apertamente bellicisti, che sfoceranno negli anni a seguire, soprattutto con l’avvento del fascismo, in una retorica apertamente revanscista.

I monumenti ai caduti possono offrire numerose chiavi di lettura, considerandone la committenza, le scelte iconografiche, quelle estetiche, la posizione, le iscrizioni e le stesse cerimonie al centro delle quali erano inseriti.
Spesso nelle commemorazioni prevaleva una retorica nazional-patriottica decisamente sostenuta, in cui i motivi del lutto erano quasi o del tutto assenti.
Si tentava di valorizzare la morte in guerra con una strategia che faceva leva su tre aspetti tra di loro complementari. Da una parte la morte in guerra era spesso descritta come un evento sereno e poco cruento, il caduto muore circondato dai commilitoni, senza ferite sfiguranti, la sua è insomma una morte bella, poco traumatica e più accettabile per i congiunti. Più ricorrente era la descrizione della morte del caduto come un atto eroico e come un sacrificio per la Patria.
Descrivendo la morte come eroica conferivano al caduto una specificità più accentuata, sottraendolo alla massa anonima dei morti.
È interessante notare che spesso era lo stesso caduto a descrivere il suo gesto come un sacrificio volontario, con le sue ultime parole o in lettere ai cari che vengono puntualmente citate nei discorsi dei commemoranti. Il caduto con le sue parole quasi assolve i sopravvissuti dai sensi di colpa, ma le tensioni erano appianate anche grazie all’omaggio che veniva reso alle madri dei caduti. La figura della madre era infatti al centro di un doppio processo di consolazione e compensazione, essendo questa al centro degli ultimi pensieri del caduto che le chiede perdono per aver posto la Patria prima degli affetti familiari; ed essendo nel contempo venerata dai conoscenti in quanto titolare anch’essa di un gesto sacrificale.
Per procurarsi materiale utile per le loro iniziative i commemoranti entravano spesso in contatto diretto coi parenti del caduto o con i commilitoni per richiedere fotografie o scritti del caduto. I resoconti stilati dai superiori e le testimonianze dei commilitoni rappresentavano la fonte principale cui attingere per ricostruire gli ultimi momenti della vita del soldato e la sua condotta al fronte. I combattenti, tuttavia, mossi probabilmente da sentimenti di pietà, tendevano a descrivere la morte in termini valorizzati ed edulcorati, operando un consapevole occultamento della realtà della guerra e della morte.
Questo attingere a un repertorio piuttosto limitato finiva col descrivere tutti i caduti in termini sostanzialmente stereotipati e uniformi, perdendo inevitabilmente la specificità del caduto a favore della creazione di uno stereotipo esemplare che giocherà un ruolo decisivo nell’evoluzione della pratica commemorativa negli anni a venire.

La vittoria non portò a un radicale cambiamento nella pratica commemorativa, anche se ovviamente il tono dei discorsi tenuti nel 1918 fu più trionfale e anche più sollevato, ma le modalità con le quali i caduti erano ricordati non mutò.
La crisi del dopoguerra portò invece con sé anche un lungo strascico di polemiche attorno alla guerra che si ripercossero anche nelle pratiche commemorative; da parte dei patriottici si esprimeva una più forte necessità di difendere la guerra, oltre che dai dubbi interni, dai suoi detrattori esterni; dovevano in particolare controbattere agli ex neutralisti, soprattutto socialisti, che tentavano di elaborare una propria memoria del conflitto pesantemente critica. Negli anni 1919 e 1920 furono frequenti gli scontri tra socialisti e patriottici durante le commemorazioni.

A livello nazionale, in un primo tempo, subito dopo la fine della guerra, si erano abbandonati i toni più roboanti, ricercando una sorta di minimo comun denominatore nell’elaborazione del lutto, in nome di un dolore comune che metteva a tacere le polemiche, costringendo tutti a un rispettoso silenzio. Un processo di questo genere avvenne su scala nazionale nel caso dell’inumazione del Milite Ignoto il 4 novembre 1921, quando le contestazioni, che pure ebbero luogo, avvennero in sordina.

Con il passare degli anni e l’allontanarsi dell’evento nel tempo, si persero definitivamente i caratteri funebri che avevano avuto le commemorazioni negli anni di guerra, a favore di un uso politico sempre più marcato e retorico.
Questo processo culminerà verso la metà degli anni Venti quando la guerra non sarà più oggetto di polemiche, anche per l’intervento dall’alto, ma semmai un efficace mito nazionale e una risorsa retorica facilmente spendibile.

Tutto concorreva a dare alle cerimonie un carattere solenne, ma al tempo stesso festoso, molto lontano dalle cerimonie funebri dei primi anni; lo scoprimento del monumento era accolto al suono di inni patriottici. Nei discorsi degli oratori i caduti della prima guerra mondiale apparivano ormai a fianco dei caduti delle guerre di Indipendenza.
Il monumento stesso appariva non essere altro che un corrispettivo visivo ed allegorico del guerriero. L’opera non era più un monumento funebre ma più vicina alle declinazioni di una monumentalistica celebrativa di tipo nazionalista. In questo modo, non sono i veri caduti, i cui nomi sono difficilmente leggibili ai piedi del monumento, al centro dell’attenzione dei commemoranti, bensì il loro gesto di sacrificio per la Patria.
In tal modo erano così poste le basi su cui potrà svolgersi la lettura fascista della guerra, basata su una sorta di teleologia che lega il Risorgimento, la Grande Guerra e la rivoluzione fascista.
Il successo della fascistizzazione della Grande Guerra tra le masse patriottiche appare più comprensibile alla luce del vero e proprio shock che il dopoguerra aveva rappresentato per molti ex combattenti. Dopo l’avvento del regime le polemiche giunsero a una conclusione; e se da un lato il fascismo monopolizzò il discorso sulla guerra, certo per molti ex combattenti tale soluzione poté apparire preferibile alla situazione che si era delineata tra il 1918 e il 1922.
La guerra costituiva oramai il compimento della storia unitaria italiana e come tale era oggetto di celebrazione.

Ma in verità gli stessi combattenti sapevano e (in altre sedi) affermavano che la realtà della guerra e dei combattenti erano ben diverse dalle rassicuranti versioni che venivano trasmesse durante le cerimonie commemorative. E vale la pena ricordare che questa realtà poteva risultare sconosciuta al paese nei primi tempi, ma non poteva essere ignorata negli anni centrali del conflitto.

Questo tipo di produzione discorsiva, alimentata dall’alto e dal basso dalle cerimonie in memoria dei caduti, trovava un terreno più fertile per essere accolto venendo incontro alla volontà e alla necessità (al tempo stesso psicologica e politica) di continuare ad accettare la guerra patriottica.

Quel che emerge certamente è un attaccamento all’ideologia nazionalista e al tempo stesso una capacità di impiegarla per elaborare la morte in guerra. È vero che lo Stato unitario rinunciò per molto tempo a condurre una politica di nazionalizzazione delle masse veramente efficace, ma da un lato va rimarcato come anche all’estero questo processo fosse spesso tardivo e come la politica "per le masse" fosse a volte fallimentare; dall’altro, come a questa rinuncia dello Stato si affianchi un grande attivismo dal basso, di cui la monumentomania ottocentesca è l’aspetto più evidente.

Vero è quindi che in Italia il messaggio nazionalista era limitato da un punto di vista quantitativo e che le grandi masse, soprattutto contadine, rimasero ad esso estranee o ostili: ma da un punto di vista qualitativo, è indubbio che esso non fosse meno pervasivo rispetto a quanto avvenne all’estero.

Significativa (e spesso sottovalutata) è l’importanza e la novità della sovrapposizione tra i concetti di Patria e Nazione, che avvenne su larga scala solo a partire dal XIX secolo, e che traslava sul concetto di Nazione le componenti discorsive accumulatesi fin dal Medioevo attorno al concetto di Patria, che a sua volta dal XIV secolo veniva identificata come corpo mistico, fino a quel momento definizione esclusiva della Chiesa.
È facile capire quali fossero le conseguenze di questa identificazione della Nazione, come un corpo mistico, soprattutto se consideriamo la figura del sacrificio. È attorno a questa che assistiamo al processo più significativo che ci fa notare come la Nazione fosse vista più come un’entità propriamente metafisica o comunque trascendente che non come un’entità politica. E d’altra parte, il fatto che la Nazione fosse in grado di dare un senso trascendentale alla morte in suo nome può aiutare a capire come si sia potuto continuare ad accettare la guerra e a far sì che questa non fosse percepita come inutile.

Quanto detto, ancora una volta, non deve farci scordare i limiti dell’elaborazione patriottica: accettazione della morte in guerra per la Nazione e mito dell’esperienza della guerra non vogliono dire superamento del lutto. Il dolore era censurato e rimosso, e i commemoranti non facevano nulla per accettare il distacco avvenuto, al contrario, il senso di debito nei confronti dei caduti li portava a rievocarli incessantemente.
Si tratta di un processo elaborativo complesso e contraddittorio in cui si eleva la guerra ad alto ideale, ma al tempo stesso non si riescono ad accettarne fino in fondo le conseguenze: si accetta e si esalta il conflitto, ma al tempo stesso le sofferenze che questo comporta, ora note, portano a temerlo.

Vai alla scheda: "Prima guerra mondiale" - i monumenti alle vittime delle guerre.

Vai alla scheda: "Le vittime della prima guerra mondiale".

Cronaca dell’inaugurazione del monumento ai caduti di Gualdo Tadino (Pg), su L’Assalto, organo della Federazione provinciale fascista umbra


GALLERIA FOTOGRAFICA

Trasporto di soldati morti in combattimento

Piedimonte del Calvario, soldati morti durante la battaglia del Podgora

Messa da campo per ricordare i compagni caduti

Un cimitero di guerra

Passo delle Selle Monzoni, fronte italo-austriaco, monumento ai caduti

15 agosto 1921, Montemurro (Pz), inaugurazione del monumento ai caduti

5 giugno 1927. Gualdo Tadino (Pg), inaugurazione del monumento ai caduti dello scultore Enrico Quattrini